Alessandro Bosetti
Anti-Zahir (Lucier vs Borges) è una raccolta di riflessioni del compositore e artista sonoro Alessandro Bosetti, dedicate al rapporto tra memoria sonora e linguaggio. Attraverso il lavoro e il pensiero del compositore Alvin Lucier, dell’autore Jorge Luis Borges e del filosofo Henri Bergson, Bosetti esplora il potere evocativo del linguaggio nell’atto di rimemorare, dunque la tensione della parola a catturare la fugace scivolosità dell’esperienza. Quando ricordiamo un suono, cosa stiamo ricordiamo? Una parola? Una sensazione fisica? L’ambivalenza del rapporto tra suono e parola si traduce così in una moltitudine percettiva aperta, capace di estendersi nello spazio, trasformando i corpi che incontra.
Alessandro Bosetti partecipa a Short Theatre 2024 con La memoria risiede nel lobo dell’orecchio, una performance realizzata nel quadro del progetto europeo Radio That Matters. Il lavoro è l’esito di pratiche collettive, nate dall’incontro con una comunità di persone cieche e ipovedenti che frequentano l’A.S.P. Sant’Alessio Margherita di Savoia. Un ipotetico “Palazzo della Memoria” prende forma in uno spazio fisico e immaginario che contiene memorie sonore connesse alle storie di vita dell3 partecipanti. Le fotografie di Maria Giovanna Sodero, che punteggiano il testo, lasciano emergere la pratica partecipativa che ha fondato la creazione della performance.
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La mia fascinazione per i dispositivi mnemotecnici ideati da filosofi come Giordano Bruno e Giulio “Delminio” Camillo mi ha spesso portato a chiedermi a cosa potrebbe assomigliare un teatro della memoria fatto di suoni anziché di immagini. La memoria in sé – «la memoria pura», per dirla con il filosofo Henri Bergson – rimane un soggetto sfuggente. In questo testo mi interessa capire come i ricordi sonori possano essere veicolati da simulacri verbali. Per farlo, faccio dialogare due figure che mi hanno spesso accompagnato: il compositore americano Alvin Lucier (1931-2021) e lo scrittore e poeta argentino Jorge Luis Borges (1899-1986), ponendo tra loro, a guisa di arbitro, proprio Bergson (1859-1941).
Negli scambi con altri appassionati di musica sperimentale, mi capita spesso di immaginare il suono di un brano musicale basandomi sulla sua descrizione verbale. Lucier è una referenza costante in questo tipo di conversazioni. La sua musica, più di quella di altri compositori, si presta a essere evocata attraverso aneddoti che iniziano invariabilmente con l’espressione: «C’è un pezzo di Alvin Lucier in cui…». Dopo questo tipico incipit, e attraverso un processo analogico e metaforico squisitamente linguistico, ho visto estesi mondi sonori collassare in proposizioni verbali tanto stringate quanto anguste. Il caso di Lucier è particolarmente ironico, trattandosi di un compositore interessato alla materialità del suono. Anche in forme più classiche, il linguaggio gioca un ruolo nell’attivare il ricordo: La Sinfonia n. 3 di Beethoven è eroica, l’Ottava di Mahler gigantesca, i Lieder di Webern sono aforistici come degli haiku, le opere sinfoniche di Debussy sfumate. Ma nella musica di Lucier – come nei contemporanei Alison Knowles, John Cage, George Brecht, Yoko Ono, il primo La Monte Young – la percezione sensibile sembra potersi suggellare esclusivamente in una frase super sintetica.
Attraversando gli scritti di Jorge Luis Borges, si trovano continue allusioni alla riduzione dei ricordi a opera del linguaggio. La riduzione dell’esperienza vissuta in una formulazione linguistica è già pienamente espressa nel racconto L’immortale (1947). Borges scrive: «Quando s’avvicina la fine, non restano più immagini del ricordo; restano solo parole […]. Io sono stato Omero; tra breve, sarò Nessuno, come Ulisse; tra breve, sarò tutti: sarò morto». [2]
La ragione di questo progressivo collasso della memoria nella bidimensionalità del linguistico è, secondo Borges, correlata alla ripetizione infinita di tutte le circostanze possibili. In altre parole, l’autore sembra suggerire che, in un’ipotetica eternità, tutti finiranno per diventare tutti, destinati a scrivere tutti i libri e a pronunciare tutte le frasi possibili. In questa concezione, le vite e le coscienze individuali si appiattiscono inesorabilmente su un copione ripetuto all’infinito: è la trasformazione finale di ogni memoria, anche sonora, in “parole”.
La più nota composizione di Alvin Lucier I am Sitting in a Room (1969), viene spesso riassunta in semplici formule colloquiali come: «C’è un pezzo di Lucier in cui viene registrato un testo, la cui registrazione viene a sua volta registrata nella stessa stanza; questa nuova registrazione viene registrata nuovamente, sempre nella stessa stanza, e così via per diverse volte, fino a che quando le frequenze formanti della stanza prendono il sopravvento e trasformano l’enunciato iniziale in un curioso drone». Tuttavia, formule così semplicistiche sono incomparabili rispetto alla percezione del suono, all’esperienza fisica dell’ascolto. Il fatto che siano usate di frequente indica come esse possano essere portatrici di senso, più agili e maneggevoli dei testi che ne costituiscono la partitura, anch’essi brevi ma leggermente più estesi e decisamente più precisi (per le sue composizioni Lucier fa spesso ricorso a text scores, partiture testuali assai sintetiche). Ciò che mi interessa qui non è analizzare i text scores di Lucier né esaminare il loro funzionamento. Piuttosto, vorrei capire come il pezzo possa continuare a esistere come ‘composizione linguistica’ memorizzata che circola in conversazioni informali, articoli, recensioni, saggi e discorsi accademici. Quando si ricorda o si evoca una composizione di questo tipo, la natura del ricordo è più vicina a una formula verbale o a una sensazione uditiva? È lecito chiedersi come funziona il ricordo di qualcosa, nella fattispecie il suono, attraverso l’uso di parole?
Nel racconto Aleph, Borges immagina che – nel tempo in cui la penisola iberica si chiamava ancora Al-andalus – Averroé ospita a casa di Cordova il mercante Abulqasim al ritorno da viaggi fantastici: «La memoria di Abulqasim era uno specchio di intime viltà. Che cosa poteva narrare? Inoltre gli chiedevano meraviglie, e la meraviglia è forse incomunicabile; la luna del Bengala non è uguale alla luna dello Yemen, ma si lascia descrivere con le stesse parole». [3] Anche la nostra memoria musicale non è forse diversa da quella di Abulqasim. In essa, il Clair de lune di Debussy e la sonata Au clair de lune di Beethoven, finiscono per confondersi come si trattasse di due lune identiche.
Il regno oscuro della memoria pura
Ancora ne L’Immortale, Borges, che ha scelto di frequentare il potere manipolatorio e ontologicamente egemonico del linguaggio, si spinge più in là nel disegnare un mondo senza memoria, curiosamente somigliante all’oscuro regno della memoria pura descritto da Henri Bergson: «Pensai a un mondo senza memoria, senza tempo; considerai la possibilità d’un linguaggio che ignorasse i sostantivi, un linguaggio di verbi impersonali o indeclinabili epiteti. Così andarono morendo i giorni e coi giorni gli anni, ma qualcosa simile alla felicità accadde una mattina. Piovve, con lentezza possente». [4]
La secante che attraversa questa zona d’ombra è quella dell’emozione – in questo caso, la gioia di una pioggia mattutina – qualcosa di impossibile da misurare se non con ciò che David Lapoujade chiama il «numero oscuro della qualità», [5] un numero non quantitativo, proprio delle immagini poetiche, evocatrici di un tutto apparentemente impossibile da ricordare – ne conseguirebbe una memoria infinita – e che è forse invece l’unica cosa che veramente si ricorda.
Nel caso di una memoria sonora, ci chiediamo se sia necessario disporre tutto ciò che abita la durata lungo il tracciato di un tempo lineare per poterlo percepire, oppure se possiamo intuirlo istantaneamente. Ricostruire un ricordo sonoro a partire da una registrazione ci obbliga a dispiegarlo nella linearità, ci inchioda a una timeline che non è altro che una metafora spaziale, ciò che gilles Deleuze, riferendosi a Bergson chiamerebbe un mixte mal analysè. [6]
Ma, nella nostra mente, quale forma prende, tale ricordo, quando ricordiamo un brano come I am Sitting in a Room senza l’ausilio un supporto registrato? Si dispone su di una timeline, e quindi una linea rappresentativa di un tempo cronometrico e lineare ricreato all’interno dell’attività cerebrale? La sua temporalità si sfalda e diviene inconsistente, a-cronologica ? Oppure, in una terza ipotesi più estrema e più consona alla nostra riflessione, esso collassa in una descrizione verbale? Ricordare una musica ascoltando un disco e ricordarla tout court non sono affatto la stessa cosa. Un etnomusicologo immaginario, creato dalla penna di Claudio Morandini, affronta l’equivoco intuendo la natura ingannevole di un registratore considerato come memoria sonora. Tuttavia, la dipendenza dalla metafora che equipara memoria sonora e registratore è talmente forte che liberarsene presuppone necessariamente una febbre e un delirio:
Alcuni compositori sono noti per essere in grado di eseguire un intero brano nota per nota dopo averlo ascoltato una sola volta. Ebbene, posso farlo anch’io, al diavolo il registratore. Sto ascoltando: sto raccogliendo informazioni, sto visualizzando le note su quella serie di pentagrammi che è la mia mente. In realtà non sto affatto delirando, la febbre che mi sta flagellando mi rende perfettamente lucido: non sono altro che un cervello, riesco a percepire ciò che gli altri non possono nemmeno immaginare che esista. Trascrivo nella mia memoria un’intera enciclopedia di canzoni, versi, richiami, singhiozzi, urla e pianti. Compongo una sinfonia, anzi un ciclo di sinfonie, un oratorio di dodici ore, un melodramma di quattro giorni. E ogni sospiro di questa performance collettiva mi parla, è dotato di significato, distinto come una sillaba pronunciata da un buon oratore alla radio. [7]
Che colui che ricorda sia, più o meno soggetto a una febbre, la memoria sembra respirare, oscillando tra una compressione linguistica – di poche parole, frasi, sinestesie, concetti ripiegati su sé stessi fino a occupare pochissimo spazio – e una decompressione percettiva, in cui il ricordo puro, disseccato e inesteso come una fibra disidratata, viene reidratato, dispiegandosi, riprendendo volume e riacquistando forma.
Mixte mal analysè
Bergson ci invita a considerare la memoria e il tempo come slegati dalle metafore spaziali. Nell’essere puramente “durata”, si collocano fuori da una concezione teleologica del tempo. Bergson si interro su una questione sostanziale: «siamo talmente ossessionati dalle immagini tratte dallo spazio che non possiamo fare a meno di chiederci dove sia conservata la memoria». [8]
È una domanda che per lui, a differenza di un cognitivista dei nostri giorni, non ha alcun senso. Per il filosofo francese, la memoria infatti è eterna nel senso che non è né anteriore né posteriore al presente, ma coesiste con esso. La memoria pura di Bergson assomiglia all’eternità immaginata da Ireneo, Vescovo di Lione del II secolo d.C. Per risolvere una disputa trinitaria, il Vescovo pone l’eternità al di fuori dello scorrere del tempo. Borges parla a lungo di Ireneo nella sua Storia dell’eternità del 1936 [9] e non è un caso che il protagonista del suo racconto Funes, il memorioso (1942) si chiami proprio Ireneo.
Il caso di Funes è straordinario: è in grado di ricordare tutto. A causa di una caduta avvenuta in gioventù, la sua memoria e la sua coscienza sono infallibili:
[…] il presente era quasi intollerabile tanto era ricco e nitido, e così pure i ricordi più antichi e banali. […] Noi, in un’occhiata, percepiamo: tre bicchieri su una tavola. Funes: tutti i tralci, i grappoli e gli acini d’una pergola […] Un cerchio su una lavagna, un triangolo rettangolo, un rombo, sono forme che noi possiamo intuire pienamente; allo stesso modo Ireneo vedeva i crini rabbuffati d’un puledro, una mandria innumerevole in una sierra, i tanti volti d’un morto durante una lunga veglia funebre. Non so quante stelle vedeva nel cielo. [10]
Borges si schernisce dicendo che la sua memoria personale è poca cosa rispetto a quella di Funes, tanto da non avere quasi diritto a pronunciare il verbo “ricordare”, Tuttavia, il suo racconto non è altro che una reminiscenza che inizia proprio con un ricordo sonoro: è la rievocazione della voce di Funes che afferma di ricordare chiaramente la sua voce, la voce lenta, aspra e nasale dell’antico abitante dei sobborghi, senza le sibilanti italiane di adesso.
Quale ricordo serberebbe Funes dell’ascolto di I Am Sitting in a Room?
In teoria durerebbe esattamente quanto l’esecuzione stessa; ne ricorderebbe ogni dettaglio, ogni accumularsi di frequenze e ogni progressivo aumento del volume in un determinato quadrante dello spettro. L’esperienza di I Am Sitting in a Room per Funes sarebbe totalizzante e soffocante, tanto più che una particolare frequenza non appare in un momento preciso, ma emerge progressivamente dal niente. Funes sarebbe in grado di ricordare esattamente il sorgere del suono, saprebbe da dove inizia il fenomeno e contemporaneamente conoscerebbe il punto esatto in cui se ne è reso conto creando un salto, una chiosa, una glossa, un piccolo gradino percettivo che non esiste nella realtà ma esiste nel ricordo. La potente memoria di Funes è intollerabile perché – seguendo Borges – è spaziale ed estesa, un mixte mal analysè. Ricorda tutto ma non la totalità, e non è in grado di sublimare tale immensità in un insieme di emozioni. Poiché la sua memoria occupa spazio, finisce per uccidere in lui ogni sentimento. L’ultima riga del racconto ci dice freddamente che Funes è morto a causa di una congestione polmonare. Tuttavia, i lettori non potranno avere dubbi sul fatto che a ucciderlo sia stato lo straripamento della sua smisurata memoria.
Mi ispiro a questa iidea per proporre un esercizio forse impossibile di mnemotecnica sonora: immaginare un potenziometro che, una volta memorizzato un suono, ne regoli l’intensità e il volume interiore. Il potenziometro al minimo coincide con l’oblio – il suono è stato dimenticato, e non si sa neppure di averlo mai conosciuto – mentre il potenziometro al massimo coincide con un’allucinazione uditiva, in cui non siamo più in grado di dire se si tratti di un suono immaginario o realmente udito.
È molto interessante ascoltare Borges nelle conferenze registrate che si trovano facilmente online, non solo per quello che dice, ma anche per il fatto che la sua cecità lo costringe a parlare a memoria. Si percepisce chiaramente che la tematica è stata preparata e che una certa sequenza dell’intervento è stata memorizzata, ma si coglie che all’interno di questo brogliaccio è libero di variare, deviare leggermente il percorso e far vivere ciascuna esperienza in modo diverso. Si avverte una memoria presente, viva, attiva e soprattutto capace di sintetizzare, riducendo a poche frasi un sentire complesso: Borges era in grado di creare brevi e folgoranti immagini poetiche.
La mia memoria è molto meno potente di quella di Borges (per non parlare di quella di Funes). È scivolosa, friabile come uno sterrato in pendenza sul punto di franare sotto i piedi. Con molti condivido quel tic mnestico che porta a dimenticare di aver chiuso la porta di casa. Scendo in strada e il dubbio mi assale. Torno sui miei passi e compio lo stesso gesto; eppure, mentre lo eseguo, la mia mente si assenta. Scendo nuovamente le scale, una volta in strada il dubbio mi assale di nuovo. Risalgo e compio di nuovo il gesto di girare la chiave, ma la mente si è assentata di nuovo, così via per svariate volte. La memoria di un passato immaginario o ripetuto, e la percezione nel presente si confondono. Non basta pronunciare la frase “ho chiuso la porta a chiave”, poiché non so più in quale momento, quale giorno, in quale vita l’azione è stata compiuta. Ascoltare una musica o un suono significa già innescare il processo del ricordo, percepire un cambiamento dall’interno e riconoscere una percezione inedita che si attualizza nel flusso temporale. La memoria sonora è presente, viva, attiva e, soprattutto, capace di sintetizzare in poche frasi – forse in un tutto cristallizzato – un sentire/ascoltare complesso.
Rendering – Zahir
Di recente ho ascoltato ripetutamente Rendering (1989/1990) di Luciano Berio, composizione scritta a partire da un’opera incompiuta di Schubert. [11] Dove il compositore austriaco lascia spazi vuoti, Berio li riempie e completa nel suo stile, a volte sospeso o minimalista, facendoli precedere da un suono di celesta. Le transizioni tra i due mondi sono difficili da individuare. Ho ascoltato e riascoltato Rendering ossessivamente, alla ricerca dei momenti di cesura. Come per la porta di casa, anche qui qualcosa di magico mi distraeva proprio al momento del passaggio: un attimo prima eravamo nel mondo di Schubert, un attimo dopo in quello di Berio. Funes, invece, non avrebbe avuto dubbi; ma avrebbe capito la musica? L’avrebbe apprezzata? L’inconsapevolezza fa parte della gioia?
Ciò che rende musicale la musica di Rendering è questo momento sfuggente in cui le cose cambiano e che si ostina a sottrarsi alla memoria, proprio come il gesto con cui chiudo a chiave la porta di casa. Questo momento sembra essere il contrario di ciò che Borges identifica con lo Zahir, che «[…] la gente, in terra musulmana, usa per gli esseri e le cose che hanno la terribile virtù di essere indimenticabili e la cui immagine finisce per renderli folli gli uomini». [12]
Il momento di Rendering in cui “la musica cambia” è l’opposto di uno Zahir, qualcosa che è intrinsecamente irricordabile, che ha la proprietà di sfuggire alla memoria, o semplicemente a quella parte di memoria che vorrebbe ridurla a una formula, un enunciato, una parola. Da qualche parte, tutta la musica lotta contro lo Zahir con la strategia proposta da Borges: «[…] i sufisti ripetono il loro nome o i novantanove nomi divini finché questi non vogliono più dire nulla. Io desidero percorrere tale via. Forse finirò per logorare lo Zahir a forza di pensarlo e ripensarlo». [13]
Quei momenti di Rendering in cui la giuntura sparisce alla memoria sono i punti in cui la musica è riuscita a logorare lo Zahir e a sfuggire al linguaggio. Il ripetersi ossessivo dell’enunciato di I Am Sitting in a Room percorre una strada simile, cercando di logorare il senso della formula, lasciando che la ripetizione e la ridondanza la trasformino in qualcosa di unico che sfugge completamente alla memoria e al senso. Se ci riesca o meno, è oggetto di dibattito.
[1] L’articolo è originariamente apparso in una precedente versione dal titolo Singing the Zahir Away: Lucier Meets Borge, in «E-Flux Journal», issue 144, April 2024: https://www.e-flux.com/journal/144/599019/singing-the-zahir-away-lucier-meets-borges/
[2] J.L. Borges, La ricerca di Averroè, in L’Aleph, Adelphi, Milano 1998, p. 79.
[3] J.L. Borges, L’Immortale, cit., p. 19.
[4] D. Lapoujade, Puissances du temps. Versions de Bergson, Éditions de Minuit, Parigi 2014, cit. p. 27.
[5] G. Deleuze, Le bergsonisme, Presses Universitaires de France, Paris, 1966. Pg. 6.
[6] C. Morandini, Les Oscillants, Anacharsis, Toulouse 2021, p. 238.
[7] H. Bergson, Matière et mémoire. Essai sur la relation du corps à l’esprit. Presses Universitaires de France, Paris 1939, p. 165.
[8] J.L. Borges, Storia dell’eternità (1936), trad. it. di L. Bacchi Wilcock, Il Saggiatore, Milano 1962.
[9] J.L. Borges, Finzioni, in Id., La biblioteca di Babele, trad. it. di F. Lucentini, Einaudi, Torino 1955, pp. 48-49.
[10] Schubert-Berio, Rendering pour orchestre (1989-1990).
[11] J.L. Borges, Lo Zahir, in L’Aleph, cit., p. 90.
[12] Ivi., p. 93.
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Alessandro Bosetti è compositore e artista sonoro interessaoo alla messa in discussione delle categorie estetiche e delle posture dell’ascolto. La sua ricerca è accolta nei programmi di numerosi festival, tra cui Festival d’Automne di Parigi, Festival Eclat di Stoccarda, festival Présences Electroniques del GRM di Parigi, festival Liquid Architecture di Melbourne, San Francisco Electronic Music Festival, festival Musica di Strasburgo e festival Ruido a Buenos Aires. Ha pubblicato con etichette come Xong, Kohlhaas, Errant Bodies Press, Holidays Records, Unsounds e Monotype, che nel 2016 gli ha dedicato un box set retrospettivo (4 CD). Il suo libro Thèses/Voix – una raccolta di testi tra teoria, poesia e partitura – è stato pubblicato nel 2021 da Les presses du réel. Il vinile FasFari – episodio più recente della serie Plane/Talea – e il CD Portraits des Voix sono appena usciti per Xong e Kohlhaas records.
VIANDANZE è la sezione di CUT/ANALOGUE delle scritture in interdipendenza dinamica con le pratiche artistiche e le opere presenti al festival (e altrove). Propone una forma di prossimità somatica tra chi osserva e chi è osservato per far balenare pensieri sul sensibile che avviene in scena.