Ilenia Caleo
Dopo The Dancing Public, presentato nell’arena esterna del Teatro India nell’edizione 2022, la coreografa e danzatrice danese Mette Ingvartsen torna a Short Theatre 2024 con RUSH, un solo ideato per la performer Manon Santkin, che rivisita e riabita materiali di passate opere di Ingvartsen, rimodellandone la trama in un nuovo assetto compositivo.
La scrittura del corpo traccia una sorprendente cronologia di riferimenti alle creazioni passate, tra cui The Artificial Nature Project, la cui ricerca è esplorata da Ilenia Caleo nel suo libro Performance, materia, affetti (Bulzoni 2021). Nel lavoro di Mette Ingvartsen, i corpi umani e le materialità non umane si intrecciano in una relazione continua, guidata dal movimento nello spazio, generatore di zone liminali intense che dissolvono le differenze tra soggetto e oggetto. Se da una parte il tentativo dell’artista di coreografare la materia ne rivela il carattere ingovernabile, dall’altra mostra la possibilità di nuove relazioni di intimità con il non-umano, all’interno di un paesaggio imprevedibile in cui tutto diventa soggetto performante.
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Teorie e estetiche per corpi non umani
Che cosa significa comporre una coreografia per materie, in cui il movimento umano non è più al centro dell’attenzione? In che modo accogliere la forza delle cose, dei materiali, degli oggetti come qualcosa che agisce sugli esseri umani? Qual’è la relazione tra mondo animato e mondo inanimato?
Cos’è ciò che muove (non-umano), come si attiva il movimento impersonale e cosa questo movimento significa per noi? Quando gli oggetti iniziano ad acquisire vita propria? Può un oggetto avere capacità di agire? Sono queste le domande – speculative e estetiche – da cui l’indagine di Mette Ingvartsen, coreografa, performer e ricercatrice danese basata a Bruxelles, si mette in moto. Dal 2009 al 2012 Ingvartsen realizza una serie di progetti intitolata programmaticamente The Artificial Nature, in cui esplora come si formano le percezioni della natura, adottando una posizione compositiva del tutto inedita: quella di coreografare e fictionalizzare i fenomeni naturali e gli ambienti.
La serie può essere considerata come il tentativo di coreografare la materialità. Il lavoro dell’artista si presenta come una forma ibrida di ricerca teorica sul corpo, condotta tramite la pratica del corpo in movimento, e nei suoi lavori vengono attraversati linguaggi e formati diversi. Il primo pezzo, evaporated landscapes (2009), è una performance per schiuma, nebbia, luce e suono. Questi elementi materiali sono gli unici corpi presenti sulla scena, non vi sono performer umani: i materiali utilizzati sono materiali effimeri e si muovono, galleggiano e si dissolvono continuamente nello spazio. I principi che presiedono alla grammatica di questo mondo artificiale in continua mobilità sono l’evaporazione, la dissoluzione e la dispersione. Evaporazione, dissoluzione e trasformazione di materie e corpi operano come principi compositivi, processi di scrittura – il montaggio coreografico non è dunque progettato per forme né per immagini, ma procede per fasi di trasformazione delle componenti materiali. I paesaggi si susseguono, si sciolgono uno nell’altro.
La nebbia, prodotta da una rudimentale macchina scenica teatrale, si diffonde in questo paesaggio schiumoso, introducendo un’altra matericità: onde, correnti, flussi, una piccola tempesta accade. Sono forze meteorologiche all’opera, ma su piccola scala, un cielo o un oceano artico all’altezza dei nostri piedi. Anche la percezione del corpo di chi osserva ne è così coinvolta, la misura percepita del nostro corpo modificata. Illusione, immaginazione, artificio. Non è un’esperienza semplicemente visiva: si creano e si disfano universi, percepiamo la materia muoversi, e tale capacità espressiva talvolta ci fa ridere, talvolta ci commuove. È un’intimità con la materia, che genera metamorfosi a cui prendiamo parte.
The Artificial Nature Project è l’ultimo lavoro della serie, e indaga la possibilità dell’incontro tra performer umani e performer non umani. La drammaturgia è curata dalla teorica Bojana Cvejić. La performance sfida frontalmente la percezione sensoriale e visiva del pubblico: il palcoscenico è immerso nel buio. Nell’aria, nello spazio scenico si formano e scompaiono dei frammenti mobili, come delle nuvole scintillanti, la cui densità e consistenza aumenta via via. È una massa variabile composta di piccoli coriandoli riflettenti, frammenti rettangolari di carta argentata, che dà vita a spirali, gorghi, dispersioni, fasi di condensazione e rarefazione. Il suono e le luci costruiscono la drammaturgia di questo aggregato di materia che si disfa e si ricompone.
Inizialmente indistinguibili, nel corpo della performance si riconoscono i corpi che si muovono sulla scena, danzatrici/tori integralmente vestitɜ di una tuta nera. Si muovono con un movimento tecnico, solo a tratti visibile, una coreografia di attività laboriose, efficaci e finalizzate, che richiede competenze tecniche simili a quelle richieste in un cantiere, per operai che lavorano in strada o per agricoltori. Spostano le masse di frammenti luminosi utilizzando strumenti e attrezzature da lavoro come soffiatori elettrici, aspiratori, raccoglitori con aste. Il risultato visivo è paragonabile a quello degli effetti speciali digitali, come fosse il movimento dei frattali o un’animazione 3D. E in qualche modo, letteralmente, lo è: «i materiali sono messi in movimento dai danzatori, componendo un corpo che non è più fatto di carne umana, ma piuttosto di una massa volante, fluttuante». [1] Non vi è alcun ricorso a proiezioni o dispositivi digitali, ma il set è altamente tecnologico per quanto riguarda il disegno luminoso e la strumentazione tecnica. L’effetto high tech della visione è però generato dall’attrezzatura low tech in dotazione: 100 chili di coriandoli d’argento, 4 soffiatori fissi, 4 soffiatori portatili, molte coperte isotermiche di emergenza (d’oro e argento), specchi riflettenti in plexiglass, 1 pallone aerostatico costruito per l’occasione a forma di mega coriandolo, 2 palloni neri rotondi, lunghe corde a serpentina nere, e molti rifiuti indifferenziati e oggetti arbitrari. [2]
Dall’oscurità iniziale, si accende un quadrato di neon bianchi disposti a terra, a delimitare lo spazio scenico. Lɜ performer muovono a terra i cumuli di coriandoli e lentamente, si immergono dentro, spostandoli da un cumulo all’altro. Poi si radunano in un angolo e iniziano come a scavare nel cumulo. Il rumore della carta argentata si fa più forte. C’è un’aria di zona secretata, da test di massima sicurezza, da Area 51 o forse da manovre su materiale contaminato. Il materiale argenteo viene lanciato lungo il pavimento, come un flusso, e poi in aria. Qualcosa cambia, la luce innanzitutto. I corpi dellɜ performer sono sempre meno distinguibili, l’esplosione delle particelle cresce, a diventare un geyser sulfureo, una colonna in eruzione, una sorgente da cui sgorgano flutti di materia e che inizia a muoversi nello spazio. I coriandoli sviluppano, per via del contatto, una forma di carica elettrostatica, che li elettrizza e magnetizza. Un’ulteriore forza che li muove, oltre la pressione dell’aria e la forza di gravità, trasformando le particelle discrete in un flusso continuo senza intervento umano. Il palco si satura di particelle argentate. Per chi guarda è impossibile dire se le particelle cadano o lievitino, sembra quasi siano risucchiate dalla fonte rossa luminosa, anche se le leggi fisiche non lo consentono. È uno stravolgimento percettivo, un’inversione sensoriale.
Come ultimo elemento entrano le coperte isotermiche, che via via sostituiscono le particelle – un^ performer le lancia in aria, una dietro l’altra, il suo corpo rimane non visibile anche se ne percepiamo la presenza. Poi sono mobilizzate dai soffiatori: si gonfiano, galleggiano, si aprono e si dispiegano, cadendo verso terra lentamente, fluttuando, increspandosi. Talvolta sembrano formare un corpo unico. Mutano di dimensioni, e assumono un aspetto di corpi liquidi che si sciolgono in acqua, si liquefanno. Rendono così visibili le correnti d’aria, che imprimono ai corpi direzioni in contrasto tra loro, diventando turbolenze. I corpi dellɜ performer talvolta sono visibili, talvolta scompaiono del tutto nell’oscurità, ma quel che è importante è che l’artificio non è nascosto ma sempre dichiarato: l’artificio qui è lo spettacolo, ciò a cui è rivolto lo sguardo.
Nella durata della performance il paesaggio si trasforma costantemente; si può dire che questa mutevolezza ininterrotta, questa impossibilità di fermare in immagini o forme, costituisce l’esperienza performativa dellɜ spettatatricɜ. È il movimento stesso a produrre la metamorfosi, l’equivalenza è letterale: da una scultura astratta, a uno sciame di animali, a un’alluvione, a una tempesta di sabbia che travolge lɜ umanɜ che rimangono bloccati al suo interno – «un tranquillo sito contemplativo può trasformarsi in un caos energetico di cose proiettate nello spazio». [3] Un semplice elemento come i coriandoli di carta argentata, una materia prima tutto sommato elementare, un frammento riprodotto in serie sottoposto a regole basilari, può trasformarsi in una forza caotica e incontrollabile: «la tempesta alla fine è il punto verso cui la drammaturgia si dirige, che in qualche modo è anche il punto a cui io voglio arrivare. Quel materiale ha un’esistenza potente che non possiamo controllare del tutto, nonostante i nostri tentativi di farlo». [4] La regia, la coreografia, la scrittura del movimento si avvicinano così alla loro zona di intensità liminare: una zona in cui la materia non è del tutto governabile. Un esercizio di immaginazione e di fiction politica sui corpi non può che tentare di frequentare questa zona di intensità.
Dal corpo ai corpuscoli: coreografia di un ecosistema
Lo spostamento che Ingvartsen mette in atto verso una figurazione non umana e non antropomorfica è radicale. Il fuoco si sposta dal corpo ai corpuscoli, particelle di materia che assumono autonoma capacità di azione e di espressione, alla ricerca «di un’espressione teatrale e performativa di non mondo non antropocentrico». [5] Quali sono i corpi che possono essere soggetti sulla scena? Di quali riconosciamo la titolarità espressiva e di presenza? È possibile produrre un’immaginazione concreta su cellule, corpuscoli, materie, forze non umane allontanandoci dal repertorio della modernità e della rappresentazione?
La scena postumana è ripopolata di presenze e si configura come un macrocorpo tecno-affettivo che contiene altri corpi e altre forze, non tutti umani. Lo spostamento è doppio: nuovi corpi espressivi e agenti sono messi al mondo, il confine tra ciò che è percettibile e ciò che è impercettibile si sposta. Una nuova partizione del sensibile. Cosa è percepibile come danza? Quali sono i corpi riconoscibili e abilitati? La materia inanimata possiede una sensibilità? Ponendosi questi problemi, la danza, la coreografia, la performance si danno non come rappresentazione o testimonianza, ma come vera e propria produzione di nuove soggettività. È la scena postumana priva di soggetto, in cui la coreografia diviene esperienza del movimento in sé, del muovere/muoversi privo di referenze. Ancora, torniamo alla correlazione tra movimento e pensiero, e qui il movimento del pensiero può essere visto come coreografia sensibile.
In questa apertura, anche il concetto stesso di coreografia viene ampliato e ridefinito verso un’idea di coreografia espansa: la coreografia tradizionalmente intesa come scrittura codificata di corpi in movimento nello spazio e nel tempo è estesa a corpi non umani, e viene qui descritta come «la relazione che si attiva tra gli elementi effimeri, mentre fluttuano e si dissolvono magicamente nello spazio». [6] È coreografia di un ecosistema, di un sistema di interrelazioni corporee. Del resto la questione del movimento e dell’organizzazione (coreografia) di questo movimento è diventata centrale nell’attualità del discorso pubblico contemporaneo nei termini delle politiche della mobilità, utilizzate come gestione, distribuzione e comando dei corpi:
decidere chi è in grado o autorizzato di muoversi – e in quali circostanze, e su quali basi; decidere dove si è autorizzati a spostarsi; definire quali sono i corpi che possono scegliere la piena mobilità e quali i corpi costretti a spostarsi. Il risultato finale di questa politica della mobilità è quello di trasformare il diritto alla libera e ampia circolazione in un privilegio, e dunque trasformare quel privilegio in una soggettività che ha un valore maggiore. [7]
Sono domande che invitano ad aprire e riconfigurare la questione del movimento e della coreografia, anche nelle sue restituzioni politiche e sociali. […]
[1] Così nelle note di regia dello spettacolo, http://www.metteingvartsen.net/performance/the-artificial-nature- project/.
[2] Mette Ingvartsen, EXPANDED CHOREOGRAPHY: Shifting the agency of movement in The Artificial Nature Project and 69 positions, Doctoral Thesis, Lund University Publications, Lund 2016, p. 69, disponibile online: http://lup. lub.lu.se/search/ws/files/13538775/2._Book_2_The_Artificial_Nature_Project.pdf.
[3] Note di regia: http://www.metteingvartsen.net/performance/the-artificial-nature-project/.
[4] Mette Ingvartsen, EXPANDED CHOREOGRAPHY, cit., p. 74.
[5] Ivi, p. 70.
[6] Note di regia: http://www.metteingvartsen.net/texts_interviews/evaporated-landscapes/.
[7] Ric Allsopp, André Lepecki, Editorial: On Choreography, «Performance Research – A Journal of the Performing Arts», 13:1, pp. 1-6, 2008.
Estratto da Ilenia Caleo, Performance, materia, affetti. Una cartografia femminista, Bulzoni 2021, Capitolo II Corpo-materia. Grammatiche dell’espressione, pp. 111-115.
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Ilenia Caleo è performer, attivista e ricercatrice. Filosofa di formazione, si occupa di corporeità, epistemologie femministe, sperimentazioni nelle performing arts, nuove istituzioni e forme del lavoro culturale. È ricercatrice all’Università IUAV di Venezia ed è cofondatrice del Master Studi e Politiche di Genere di Roma Tre.
Con Silvia Calderoni ha dato vita a un progetto artistico comune con la prima creazione KISS (2019). Per la Queering Platform del Freespace West Kowloon di Hong Kong hanno ideato il progetto SO IT IS. Nel 2021 hanno fatto parte di Flu水o, progetto crossdisciplinare vincitore dell’Italian Council, per il quale hanno creato thefutureisNOW? (Milano, Seoul, Shanghai). Nel 2022 hanno creato l’istallazione Pick Pocket Paradise per il Castello di Rivoli (Torino). Nel 2023 ha debuttato ad Amburgo The present is not enough.
Ha pubblicato Performance, materia, affetti. Una cartografia femminista (2021) e co-curato In fiamme. La performance nello spazio delle lotte 1967/1979 (2021). È una delle autrici invitate a scrivere per Choreographies of the impossible, catalogo della 35° Bienal de São Paulo.
Attivista del Teatro Valle Occupato e nei movimenti dei commons e queer-femministi, è cresciuta politicamente e artisticamente nella scena delle controculture e dei centri sociali.
VIANDANZE è la sezione di CUT/ANALOGUE delle scritture in interdipendenza dinamica con le pratiche artistiche e le opere presenti al festival (e altrove). Propone una forma di prossimità somatica tra chi osserva e chi è osservato per far balenare pensieri sul sensibile che avviene in scena.
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