VIANDANZE

L’aria e la membrana

di Stella Succi
La storica dell’arte Stella Succi ha lavorato come dramaturg per lo spettacolo I pianti e I lamenti dei pesci fossili, della coreografa Annamaria Ajmone. Lo spettacolo esplora il confine sfumato tra organico e inorganico, riflettendo sulla trasformazione della materia, della vita e della morte nel contesto della Sesta Estinzione. Ajmone si ispira ai fossili come testimonianze poetiche del tempo, cercando di costruire relazioni tra corpi e tempi distanti attraverso l’uso dell’interfaccia della pelle come motore del movimento e dell’aria come spazio non localizzato, generato dalle voci delle danzatrici. Nel testo che segue, Succi ripercorre le dinamiche di creazione e le istanze teoriche che permeano la ricerca di Ajmone.

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Nella pratica di Annamaria Ajmone, la creazione è immaginata come un terreno comune dove condividere un discorso con altre persone attraverso l’incontro e il dialogo. Questo metodo di lavoro le permette di oscillare costantemente, e lo ha identificato come il più efficace per la sua pratica. Il risultato finale non riflette le intenzioni specifiche di nessuno dei partecipanti, ma qualcosa di unico che emerge da questa intra-azione. Attraverso la “forma”, si sviluppano i suoi interessi: come consentire la co-abitazione sulla Terra tra umano e più-che-umano; come costruire una relazione tra materiali “viventi” e “non viventi”. La sua ricerca si situa al confine tra ricerca scientifica e speculazione sui suoi risultati, mettendo in discussione le gerarchie con cui siamo abituate a leggere il mondo intorno a noi, cercando modi per riscriverle. Tutto questo avviene attraverso un dialogo con le sue collaboratrici, attraverso i mezzi che ciascuna conosce e utilizza.

Lo spettacolo I pianti e i lamenti dei pesci fossili coinvolge un’altra danzatrice e artista vocale, Veza Fernandez; l’artista visiva Natalia Trejbalova, che si occupa della scenografia; la ricercatrice Stella Succi, che lavora sugli input teorici e drammaturgici; ed Elena Vastano, che è responsabile del design delle luci. Stiamo anche collaborando con la designer Giulia Polenta, che creerà un reader online per condividere vari elementi del processo creativo. Ognuna di noi condivide le proprie ricerche in corso intrecciandole. Stiamo sperimentando e testando materiali, sviluppando la narrazione di alcune pratiche, leggendo testi come fonti d’ispirazione. Il titolo dello spettacolo convoca i fossili, che ci interessano da un punto di vista poetico. I fossili, il loro stare al confine sfumato tra organico e inorganico, tra vita e non-vita, che testimoniano il processo di sedimentazione del tempo negli strati della materia. Roger Caillois li descrive così nel suo testo La scrittura delle pietre:

Le rose microscopiche delle diatomee, le sezioni minuscola delle radiolariti, i tagli anellati dei coralli, i canali paralleli delle palme, le stelle dei ricci di mare incessantemente seppelliscono nello spessore della roccia seminagioni di simboli per un’araldica senza blasoni. L’albero della vita non smette di ramificarsi. Una scrittura infinita si aggiunge a quella delle pietre. Immagini di pesci che compiono evoluzioni tra ciuffi di muschi nel cuore di dendriti di manganese. Un giglio di mare nel seno dell’ardesia oscilla sul suo stelo. Un gamberetto fantasma non può più scandagliare lo spazio con le sue lunghe antenne spezzate. Felci imprimono nel carbon fossile le loro volute e le loro trine. L’ammonite di ogni dimensione, dalla lenticchia alla ruota di mulino, impone ovunque il marchio della sua spirale cosmica. Il tronco fossile, divenuto opale e diaspro, come per un incendio immobile, si veste di scarlatto, di porpora e di violetto. L’osso dei dinosauri metamorfosa in avorio la sua tappezzeria a piccolo punto, ove a tratti luccica un rocco rosa o azzurro, color confetto. Ogni vuoto è colmato, ogni interstizio invaso. Persino il metallo si è insinuato nelle cellule e nei canali da cui la vita è da gran tempo scomparsa. La materia insensibile e compatta ha sostituito l’altra nei suoi ultimi rifugi. Ne ha invaso le figure precise, i solchi più fini, così perfettamente da consegnare l’impronta anteriore al grande libro delle età. [1]

Ci interessa esplorare le possibilità di entrare in contatto con diversi corpi e materiali “inerti”. Pertanto, le pratiche al centro dello spettacolo sono incentrate sulla relazione, costruita sul palco dalla presenza di Annamaria Ajmone e Veza Fernandez. Il desiderio di lavorare sulla relazione con materiali “non-viventi” o “inerti” (tutte definizioni discutibili) è stato acceso in noi dall’incontro con Menti parallele, un libro della scienziata e teorica Laura Tripaldi. In questo testo, Laura Tripaldi scrive come la materia sia permeata da una forma di intelligenza che nasce dalle relazioni, e che questa relazione esiste in uno spazio che in chimica si chiama interfaccia. L’interfaccia è lo spazio tridimensionale dove elementi diversi si incontrano, e in questo spazio tridimensionale, gli elementi e i materiali si comportano diversamente dal solito, creando una nuova realtà. Un esempio è l’acqua, che su una superficie liscia assume la forma di una goccia: un modo di esistere che si esprime solo nella relazione, e che ci ha ispirate nella concezione dello spettacolo.

Così, ci siamo chieste su quali interfacce concentrarci, cosa permette ai nostri corpi di relazionarsi, e abbiamo deciso di lavorare principalmente sull’aria: per questo motivo, molte delle pratiche al centro dello spettacolo sono focalizzate sulla voce e sul sistema fonatorio, strumenti di connessione all’interno dell’interfaccia dell’aria. Un testo che ci ha ispirato in questo senso è L’oblio dell’aria della filosofa femminista Luce Irigaray:

L’aria non è il tutto del nostro abitare in quanto mortali? Esiste un dimorare più vasto, più spazioso, e anche più generalmente quieto di quello dell’aria? Può l’uomo vivere altrove che nell’aria? Né nella terra né nel fuoco né nell’acqua, c’è un possibile abitare per lui. Nessun altro elemento può così fargli luogo di luogo. Nessun altro elemento porta con sé o si lascia attraversare da luce e ombra, voce o silenzio. Nessun altro elemento è a tal punto l’aperto stesso. (…) Ma questo elemento, irriducibilmente costitutivo del tutto, non s’impone né alla percezione né alla conoscenza. Sempre qui, permette di essere dimenticato. Luogo di ogni presenza e assenza? Nessuna presenza senza aria. [2]

L’altra interfaccia su cui ci siamo concentrate è la pelle o membrana – la superficie dove due corpi si toccano, che separa un dentro da un fuori. L’artista visiva Natalia Trejbalova ha immaginato di lavorare sul pavimento della danza, interrompendo la sua natura di “non-luogo”, e, coerentemente con la ricerca teorica dello spettacolo, lavorando sulla superficie con materiali morbidi e trasparenti, simili a pelli. Natalia li ha dipinti con un aerografo usando uno stencil. L’idea è di lavorare sull’impronta e sulla sedimentazione: infatti, sebbene i fossili siano oggetti tridimensionali, essi originano dall’impronta lasciata dai corpi sul terreno e dalla graduale sostituzione della materia organica con materia minerale. La combinazione dei vari elementi, ancora nelle loro fasi preliminari, creerà un grande spazio sul pavimento della danza. Le pratiche che stiamo sviluppando riguardano tutte la relazione. Il testo di Tripaldi ha ispirato Annamaria Ajmone a lavorare con la superficie del corpo e a considerarla come il motore del movimento. Come si relaziona la sua superficie con altre superfici? Quali informazioni le dà per organizzare il corpo nello spazio e per muovere lo spazio tra lei e l’altro corpo? E se questo corpo è immobile? E se ballasse con il sipario? Quale danza si sviluppa tra il suo corpo e quello di Veza? Immagina anche di ballare con le aree nascoste della pelle: l’interno del naso, o delle orecchie.

Foto di Maria Giovanna Cicciari.

La pratica di Veza si concentra sull’uso dell’emozionalità della voce per esplorare diverse forme di ascolto tattile. Con Annamaria stanno esplorando i suoni ad alta frequenza: attraverso le voci, Annamaria e Veza generano uno spazio sonoro intorno a loro, che possono afferrare e muovere, espandere verso l’altro. Questa zona è complessa e generativa; è intangibile, ma è densa. In questa zona, si generano danza e musica. Abbiamo identificato quattro texture sonore (fluttuante, elastica, selvaggia, circolare): la loro qualità e struttura creano un volume di suono spazializzabile. Un’altra pratica si basa sul cantare insieme una canzone inventata, con testi composti di suoni, grida e lamenti, usando la voce per liberare spazi emotivi. Annamaria e Veza cantano insieme, una voce si fonde nell’altra, attraverso un processo di creazione istantanea che esplora le zone ombrose delle loro possibilità vocali, e che non include parole. In questi tempi di intelligenza oscurata (prendendo in prestito le parole di Simone Weil), lamentarsi, piangere, è un diritto.

Stiamo lavorando per costruire la struttura dello spettacolo, che prende forma sempre più come una stratificazione progressiva di voci e pratiche: una struttura che rispecchia la sedimentazione degli strati geologici nel corso di milioni di anni. Lo spettacolo, infatti, inizia con un sussurro, e si espande fino a concludersi con un lamento quasi cantato: un grido che accompagna il ciclo della vita e della morte, la trasformazione da organico a minerale, un grido che collega il Tempo Profondo della formazione dei fossili e il presente della Sesta Estinzione, la scomparsa di un numero impressionante di specie viventi.

 

[1] Roger Caillois, 1970, La scrittura delle pietre, A. Tizzo, Abscondita, Milano 2013.
[2] Luce Irigaray, L’oblio dell’aria, trad, it. C. Resta, Bollati Boringhieri, Torino 1996.

 


Stella Succi è storica dell’arte. Ha fatto parte delle redazioni di Alfabeta2, Mousse Magazine, The Towner, Prismo, ed è attualmente coordinatrice del Tascabile. Fa parte di Altalena, collettivo e gruppo di ricerca interdisciplinare nel campo delle arti visive. Dal 2020 cura la ricerca drammaturgica della coreografa Annamaria Ajmone. È ricercatrice presso least [laboratoire écologie et art pour une société en transition].


VIANDANZE è la sezione di CUT/ANALOGUE delle scritture in interdipendenza dinamica con le pratiche artistiche e le opere presenti al festival (e altrove). Propone una forma di prossimità somatica tra chi osserva e chi è osservato per far balenare pensieri sul sensibile che avviene in scena.


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