di Nina Ferrante e Francesca De Rosa
Nina Ferrante è una studiosa e un’attivista terrona trans-femminista queer, si occupa di studi culturali e postcoloniali del mondo anglofono ed epistemologia femminista
Francesca De Rosa docente, ricercatrice e autrice, si occupa di studi visuali e costruzioni dell’alterità nelle ex-colonie africane di lingua portoghese
FATTO
È il 20 luglio 2020 quando iniziano a diffondersi da un profilo Twitter le immagini di una donna che verrà presto soprannominata “Naked Athena”. A Portland le proteste si sono di nuovo infiammate da qualche giorno, anche se in realtà è da maggio che vanno avanti quasi senza tregua, a seguito della morte di George Floyd. La giustizia rivendicata non chiede solo di individuare e perseguire i responsabili di quel crimine specifico, piuttosto pretende di non finanziare le forze dell’ordine, braccio armato del razzismo di Stato, a favore di un investimento su scuola, salute e per rimuovere tutte le cause di ineguaglianza strutturale tra bianchi e neri negli Stati Uniti. In quei giorni per la prima volta vengono utilizzati dei reparti militari, che a mano armata tentano di arrestare, letteralmente, le giovani generazioni di neri che con determinazione mostrano la possibilità di una nuova storia degli Stati Uniti e dell’Occidente. Il fatto però non è questo, i giornali e le risorse sociali narrano l’evento: lei, incappucciata siede a terra, a gambe spalancate, di fronte alla polizia. Ciò che mostra a noi è celato dalla costruzione di un’immagine grammaticalmente perfetta, per altro rispettosa di tutti gli standard di condivisione social che perseguono il nudo. Non conosciamo la sua identità, dunque non conosciamo la sua appartenenza, ma la sua schiena è leggibile, a noi che osserviamo solo quell’immagine, come bianca. È importante sottolineare che quella non è molto probabilmente la sua identità, ma ciò che soprattutto in Italia è leggibile come “noi e loro”, in una contrapposizione che non è per forza oppositiva, ma anche una giustapposizione di alleate a donne razzializzate, che nel nostro immaginario sono le altre, senza alcuna sfumatura.
L’immagine dell’Atena nuda attraversa l’Atlantico e giunge a noi: più si allontana dall’asfalto infuocato della protesta e più diventa bianca, perde le sfumature e si solidifica, diventa immaginario, per stabilirsi infine nei riquadri confortevoli dell’icona ribelle e di quello che universalmente ha ancora il potere di sbaragliare il resto, salire vorticosamente sul podio.
È una notte di luglio, è lunedì. I just wanna live.
Il ritmo violento degli spari infuocati si mischia con le parole e le note di Keedron Bryant, i fasci di luce delle pallottole al peperoncino rallentano ma non cessano, Atena nuda fa la sua apparizione, la donna nera che nei primi minuti siede accanto a lei e che si allontana solo per sfuggire alla brutalità degli spari, non è il fatto e non farà notizia.
L’immagine racconta un evento e il fatto smette di essere la protesta, le rivendicazioni, la violenza poliziesca e la resistenza. Il fatto che riportiamo qui, tuttavia, non è neanche riportare la verità, la ricerca dell’identità e dunque le ragioni del gesto. Il fatto per noi è il gesto performativo che produce conseguenze, la diffusione dell’immaginario nelle nostre risorse sociali, le didascalie che l’accompagnano leggendola come icona di una protesta che non è lì. Il ragionamento prende le mosse a partire dal potere di solidificare un corpo e il suo gesto come simbolo ritagliato dal suo contesto e si apre per osservare ciò che ci è celato ancor prima di ciò che ci è mostrato.
ICONOGRAFIA
Atena-monolitica domina le piazze delle città e delle cittadelle universitarie. Non è permesso rivolgerle lo sguardo fino al legittimo titolo di dottore. Lei, dea della sapienza, ovvero dell’arte e della guerra, il fascismo pose a ricordare una storia omogenea in cui tutta la conoscenza genera dal ventre della cultura classica e la missione resta di portare la nostra civiltà oltre ogni confine, rendendo l’epistemologia parte di una missione imperiale. Poche, invece, sono le tracce di Baubo, senza volto, ma che parla per via delle sue altre labbra, tutta vulva a gambe spiegate. Dea dell’osceno, ovvero di tutto ciò che deve restare fuori dalla cornice della rappresentazione. Baubo è protagonista del gesto della anasuromai, su la gonna, il gesto provocatorio e irriverente di sfida.
DISTRUZIONE E RASSICURAZIONE
Dall’inizio della protesta chi manifestava ha richiesto la rimozione dei simboli della violenza razzista e coloniale su cui si è strutturato lo Stato e la Società statuinitense. Da lì, in tutto il mondo è nato e si è diffuso un movimento che ha individuato e dato opacità alle cicatrici della violenza coloniale che ha fondato l’Occidente. Le prime a cadere sono state le vecchie pietre confederate, hanno seguito nel crollo Cristoforo Colombo, pioniere del genocidio delle popolazioni native americane ancora salutato come eroe nazionale dalle nostre parti, seguono schiavisti di ogni paese, preservato in una bara in legno Wiston Churchill fuori al parlamento londinese, dopo il tuffo spettacolare di Bristol del benefattore e/o mercante di schiavi Edward Colston. Già troppo a lungo Theodor Roosvelt ha cavalcato tenendo al giogo un nativo americano e uno schiavo africano ai lati. In Italia c’è chi piagnucola per difendere un fascista stupratore di bambine come Montanelli, chiedendo di contestualizzare il sessismo e il colonialismo, che in effetti sono pratiche ben contemporanee in questo paese. A lui sono toccate per adesso solo due barattoli di vernice fuxia e rossa, in due momenti diversi, tagliando il Velo di Maya degli “italiani brava gente”. Nel 2018, invece nell’8 marzo di sciopero collettivi, artiste e lavoratrici del mondo della cultura femministe alzano la gonna contro alcuni simboli individuati del patriarcato e del fascismo e mostrano a noi le loro fiche pelose, permettendoci di notare ciò che ancora è scritto del fascismo nelle nostre città e si insinua tra le pieghe dell’abitudine. L’osceno che mette in mostra ciò che solitamente non si vede. Questo è il portato destabilizzante dell’ostensione della fica. Dell’ Atena nuda ci manca tutto ciò che la foto da copertina ci cela. Ma gira sui nostri social, sulle copertine dei giornali più avari a raccontarci del movimento, ci racconta che le statue cadono, ma il corpo bianco sta ancora in piedi e con i nuovi valori, riformati, è ancora il corpo della civiltà a poter narrare ciò che è bello, desiderabile, progresso. Il corpo leggibile come bianco può ancora riempire i buchi di ciò che è crollato, senza prendersi cura delle macerie, un corpo, non necessariamente bianco, ma leggibile come tale, chiaramente femminile, ma desiderabile, può ancora rassicurare su ciò che verrà scritto nei nuovi immaginari, nella storia e ciò che resterà osceno, fuori dalla cornice della rappresentazione.
*** Dear white people, ebbene sì: le cose crollano.
Si consiglia di nascondere le sopracciglia ricurve dal fastidio. Perché non fermeranno il crollo delle monumentali storie erette sul dolore dei corpi delle persone nere. E diversamente da quello che vorremmo immaginare, la distruzione non è, non è stata e non sarà il frutto di insensata sragionevolezza. La rabbia pulsa con forza il sangue agli occhi. Sono corpi indesiderabili che non da oggi ma già da tempo calpestano i sentieri dolorosi della memoria e chiedono giustizia. Corpi che penetrano a fondo e si nutrono come tarli della polpa del legno della cornice perfetta, svuotandola della retorica della lineare compiutezza.
È il 2013 e l’artista Nona Faustine nella serie White Shoes calpesta quei luoghi della città di New York un tempo scenari violenti del commercio dei corpi neri schiavizzati, venduti, sfruttati e uccisi. Indossa solo scarpe bianche, il suo corpo è nudo per ricordare come le nere/i venivano messe all’asta per essere vendute/i, per ricordare lo sfruttamento disumanizzante inflitto alle donne nere.
Maestosa, orgogliosamente nera e svestita – per la norma obesa, oscena e inopportuna – l’artista ci riconsegna la parte rimossa della storia, quei corpi che hanno costruito la grande mela e il grande sogno americano, a suon di frustate e di violenza.
Nona Faustine sfida la normatività dello sbiancamento del corpo nero imposta dal patriarcato e dalla supremazia bianca e il suo corpo sfida le immagini rassicuranti e i canoni di bellezza in una celebrazione dell’imperfetto, e nel 2016 riporta alla luce la storia dolorosa del suo paese tra cui un bellissimo elogio alle schiave fuggitive. Il suo corpo è qui avvolto di bianco, una cintura composta da scarpe per ricordare quelle creature costrette al mondo per essere merce, il seno scoperto e in mano un’arma da fuoco: Nona Faustine nella memoria delle fuggitive, aspetta appoggiata a un albero il passaggio dei suoi padroni, resiste e si appella agli dei per un miracolo, cerca vendetta.
Nona Faustine, Lobbying the Gods for a Miracle, Brooklyn, 2016
(https://museemagazine.com/features/2019/4/8/arnt-i-a-woman-interview-with-nona-faustine)
ICONOGRAFIA DI ALTRI CORPI
Al bronzo e al marmo la consegna di propagare la storia, la statua racconta le gesta oltre lo spazio e il tempo. Il gesto, invece, trova solo nel corpo il proprio archivio, ma consegna alla registrazione la possibilità di raccontare l’evento, e nella circolazione può tradursi in icona, scrivendo la storia. E dunque, cambiati i mezzi, nel regime di visibilità entra solo chi rispetta la regola di ciò che può essere visibile, perché racconta la storia giusta, o perché in qualche modo è tollerabile. La circolazione della Naked Athena ci rassicura anche perché attesta che sta ancora al corpo bianco occidentale la possibilità di scrivere gli immaginari e definire i confini della cornice della rappresentazione, perché non si è mosso il potere di raccontare e i mezzi per farlo. Eppure nei movimenti, come nel movimento BLM i corpi acquistano una potenza tale da far saltare i tappi e altre storie, biografie, corpi, impongono altri orizzonti per sporgersi a guardare, immaginare un’ altra storia per altri futuri ancora da scrivere.
LA RAGIONE PER CUI LE CITTÀ BRUCIANO
Le immagini della Black Athena viaggiano parallele alla discorsività costruita sulla dicotomia pacifico/ violento sempre pronta all’incasellamento dialettico nostrano per inquadrare un movimento, che va ben oltre ciò.
Cade la linearità della narrazione delle rivolte, dei teppisti, dei saccheggiatori, dei devastatori tanto cara alla critica dei detentori del manuale del privilegio bianco.
Tamika Mallory lo dice con chiarezza lo scorso giugno. Le sue affermazioni che riescono a giungere persino sui media nazionali italiani bruciano come i palazzi, perché l’articolazione costante ed efferata del razzismo strutturale non può essere esemplificata come episodi isolati, perché troppo è troppo, perché se di saccheggio bisogna parlare, è importante nominare le depredazioni ai danni dei nativi americani in una società intrisa di razzismo sistemico da 400 anni.
Burn Baby Burn.
Le piazze sprigionano una forza collettiva che si rinvigorisce proprio attraverso la potentissima unione delle tante anime che avanzano ascoltandosi nel passo. A guardare bene anche le narrazioni maschilizzanti non combaciano con quello che le immagini ci offrono: le donne, le impreviste, le soggette molto spesso estromesse dalle narrazioni e dalla storia consegnataci sfondano l’obiettivo disidentificando anche la categoria donna e arricchendo il femminile. Non è mai troppo ribadire il continuo processo di autodeterminazione, che sgretola la retorica della maschilizzazione alla ricerca del leader da diffondere e dà un’impronta femminista, trans femminista, non binaria alle pratiche e ai linguaggi.
BALLERINE
Sarà scontato ma lo ricordiamo. Non è la Black Athena a proporci la performance o la danza, ma è la danza che è espressione, rivendicazione e azione consolidata e indissolubile delle proteste di BLM. Essere vive/i significa anche imporre il proprio corpo danzante, renderlo manifesto in tutto il suo dolore, nelle ferite e nelle cicatrici ma anche nell’esplositività della rabbia e della gioia. I corpi danzanti hanno nel movimento la memoria di chi c’è stato, la sofferenza del corpo di chi non c’è più. Parlano la lingua della solidarietà tra corpi neri, trans, non binari e di tutt_ coloro che resistono.
E così l’omaggio si fa barricata, si fa fuoco, si fa lacrime di gioia e di dolore e si fa danza, danze tradizionali espressioni delle comunità afro-diasporiche, danza degli antenati, hip hop, electronic boogie, slam poetry, voguing, twerking, danza classica, improvvisazione singola o collettiva.
Ava Holloway e Kennedy George, 14 anni. Appena ricevono la notizia che la statua del generale Lee, iconica figura della storia confederate di Charlotteville, Luisiana, verrà rimossa, si danno appuntamento, tra i tanti, per festeggiare. Mentre la storia sta per essere riscritta loro mettono in scena già l’immaginario del futuro che verrà. Le due ragazze si presentano in tutù, portando il pugno nero sulle punte. Ad andare a pezzi lì, non è la statua del generale, ma l’idea di cosa può un corpo nero: vincere. L’immaginario non è legato solo a quello della protesta, il corpo nero è infatti da sempre escluso dai rigidi canoni della danza classica, che
vuole corpi privi di gravità, oltre che di forma, che attraversano il mondo senza lasciare impronta. Negli anni 50 il corpo nero di Angela Bowen sfida i canoni della danza classica, negli anni diventa una leggendaria insegnante di balli su percussioni aprendo una scuola per insegnare alle bambine nere che il loro destino non è segnato e il loro corpo può essere strumento di liberazione; incontra Audre Lorde, il femminismo nero, il lesbismo e diventa un’attivista appassionata e sfrontata. E con la stessa passione e sfrontatezza si dedica agli studi fino a diventare professoressa universitaria, portando la sfida all’Accademia, a ciò che ha posto legittimo nei curriculum universitari: famosa è la sua battaglia per poter insegnare nel suo corso Tony Morrison, già allora Premio Nobel. L’attacco, tutt’altro che in punta di piedi, è al cuore dell’epistemologia occidentale e a ciò che riceve il lustro di poter entrare nel canone dell’arte e della cultura.
TWERKING
È un’altra notte. È giugno. Il muro delle volanti è lì a impedire il passaggio. Una ragazza nera si fa avanti, scarpe da tennis, body, stoffa fucsia a coprire bocca e naso e una T-shirt che grida che le vite nere importano. Si posiziona al centro e parte la danza. Twerka e balla. Mostra il culo ai poliziotti. Una donna le si avvicina incitandola. I passi di danza continuano, la schiena è ora sull’asfalto, apre le gambe in direzioni opposte in spaccata, mostra e tocca con un breve movimento della mano la sua vagina, solleva il braccio sinistro, nel punto più alto il suo dito medio. Si rialza e continua a twerkare, la sua voce si alza contro quelle auto: this is my black ass!
Quel culo che per secoli è stato violato, sfruttato, torturato, cosificato.
Le sue gambe sono canonicamente scomposte, troppo aperte, quella rigidità pelvica è tanto lontana dal decoro culturale occidentale che la definirebbe sporca e indecorosa. Per non parlare di chi di fronte al passo del twerk prova ad articolare l’oggettivazione della donna in nome di un femminismo bianco e perbenista. Lei sorride, muove il culo liberamente e quel sorriso è forse più immorale del culo in sé perché è fottutamente libera e dissidente nel rivendicare il suo corpo. Lì a un metro le quattro ruote e le luci delle volanti della polizia continuano a farsi muro.
AMAZZONE NERA
– E tu Athena Nuda come ti sei sentita? –
“Ovunque io vada, è come se fossi l’unico fiore giallo in un campo di rose rosse, capite?” a dirlo è
Brianna Noble, il cui nome forse ci dirà poco. Potremmo ricorrere all’immagine di una Black Lady Godiva ma la mitologia classica a cui faremmo riferimento sarebbe comunque un velo bianco sul volto di Brianna in sella al suo cavallo lo scorso giugno per le strade di Oakland.
Questa volta è lei che si alza sul piedistallo e sovrasta anche gli ufficiali a cavallo, fiera e risoluta, con il pugno alzato si auto-definisce amazzone. È impossibile non notarla, non una donna, per giunta nera, su di un cavallo più grande della stazza media in un contesto in cui non c’è mai stato spazio per lei. Brianna non è la sola a scendere in sella al suo compagno, lo fa con un cartello per ricordare che la sua vita conta, contro un sistema giudiziario ingiusto.
Anche lei per dire i loro nomi:
George Floyd, Breonna Taylor, Manuel Ellis, Trayvon Martin, Michael Brown, Eric Garner, Jamar Clark, Philando Castile, Ahmaud Arbery, Dreasjon “Sean” Reed, Botham Jean, Ezell Ford, Michelle Shirley, Redel Jones, Kenney Watkins, Stephon Clark, Laquan McDonald, Tamir Rice… e tanti (troppi) altri ancora.
BLACK ATHENA
[Si capisce allora meglio il caso di Margaret Garner, schiava in fuga che rimase intrappolata nei pressi di Cincinnati, uccise sua figlia e cercò di uccidersi. Si rallegrò per la morte della ragazza- “almeno non saprà quanto soffre una donna da schiava”. E implorò di essere condannata a morte: “Preferirei cantare sul patibolo piuttosto che ritornare alla schiavitù”.
(Aptheker, “The Negro Woman”, cit., p.11. Dalle trame femministe di Angela Davis in Donne Razza e Classe p.50)
[Una donna incinta che ha commesso una violazione nel campo è obbligata a sdraiarsi su una fossa adatta a contenere il suo pesante corpo, dopodiché viene sferzata con una frusta o battuta con un manico perforato. A ogni colpo si forma una piaga. Una delle mie sorelle venne punita proprio in questo modo, tanto duramente da far cominciare il travaglio. Il bambino nacque nel campo.]
(Moses Grandy, Narrative of the Life of Moses Grandy. Late a Slave in in the United States of America, Boston 1844, p.18. Sempre dalle trame femministe di Angela Davis p. 35).
[Il cucciolo rossiccio si avvicina vacillando, minuscolo e grasso. (…) [Chia] affonda i denti. Lo sbatte di qua e di là come un copertone che non ha ancora morsicato abbastanza perché Skeetah glielo tolga. Chia ha la bocca insainguinata e gli occhi sfolgoranti, come Medea. È questo che significa essere madre? le chiederei se potesse parlare.
(Salvare le ossa, di Jasmin Ward, p.158)
[…] l’ora del sole che va e viene , della luce che arriva da ogni parte e da nessuna, e tutto è grigio.
Rimango li sveglia e non vedo altro che il bambino, il bambino a cui ho dato forma nella mia testa, un’Atena Nera che allunga la mano verso di me.
(Di nuovo nel sangue e nella bellezza di Salvare le ossa, di Jasmin Ward, p. 262)
Questi corpi raccontano storie: AIN’T I A BLACK ATHENA? Non sono forse anch’io una Atena Nera?