Anna Purna Nativo
Nel 2021, Short Theatre presenta la Frontera / Procesión – Un ritual de agua di Amanda Piña. È un progetto partecipativo immaginato per la città di Roma dopo aver istituito, al Teatro India, una temporanea Escuela de Frontera. Si tratta di un capitolo della ricerca di lungo corso della coreografa messicano-cilena.
A distanza di quattro anni, Anna Purna Nativo esplora la ricerca performativa di Amanda Piña, entrando nelle epistemologie sudamericane e mettendo in luce le rivendicazioni politiche che emergono nel lavoro. Le antiche danze moresche poi andine, trasformate in pratiche di resistenza, diventano rituali coreografici contemporanei con un preciso intento decoloniale.
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No puede haber un discurso de la descolonización, una teoría de la descolonización sin una práctica descolonizadora.—S. Rivera Cusicanqui, Ch’ixinakax utxiwa [1]
La ricerca coreografica di Amanda Piña nasce dall’investigazione delle danze ancestrali andine attraversate da uno sguardo non occidentale. Come artista, coreografa e danzatrice cileno-messicana è interessata a fare de i suoi lavori rituali contemporanei di decolonizzazione per rifare il mondo. Spinta dal desiderio di favorire la “riapparizione” di gesti, rituali e movimenti del passato, nel 2014 inaugura il progetto Endangered Human Movements, cornice teorico-filosofica dalla quale prendono forma performance, workshop, installazioni, pubblicazioni e un ampio archivio online. La strutturazione in volumi del progetto permette a Piña di creare un complesso di opere tra loro comunicanti e di approfondire la ricerca in un arco temporale dilatato. Il progetto è nato dal desiderio di preservare pratiche e movimenti corporei in via di estinzione, riportandoli nei contesti più istituzionali di teatri e musei attraverso un processo di decolonizzazione a favore della loro reappearance, in particolare di conoscenze indigene amerindie in pericolo di estinzione. In un continuo processo di apprendimento e restituzioni, radicati nell’esperienza dei corpi, Amanda Piña guarda a un patrimonio di saperi sminuito, silenziato, se non perseguitato, bollato come mere credenze culturali e folkloristiche. È un’investigazione che trova supporto nella rete di studiosɜ e antropologhɜ decoloniali attualmente attivɜ nelle Americhe. Esempio ne è Montañas en Resistencia, un ciclo di conferenze, letture e conversazioni online centrate sull’urgenza di pensare le montagne come corpi vivi, in cui cerca di generare nuove e profonde alleanze tra attivismo ecologico, saperi indigeni e Stati. Nella sua pratica, Amanda Piña promuove l’attivazione di spazi di trasmissione non gerarchici, all’interno dei quali possano emergere pratiche di conoscenza attraverso l’esperienza collettiva.
L’approccio all’apprendimento della blanquitud, [2] ovvero quello del contesto moderno-coloniale bianco, fonda le sue radici su una forma di conoscenza attraverso la distanza e l’isolamento, basata sull’idea che ci sia una sola forma corretta di comprensione del mondo. Una delle conseguenze più dirette è la negazione di quei saperi che derivano dalla prossimità e dall’esperienza fatta da corpi con altri corpi [3] umani, animali, vegetali. Amanda Piña propone pratiche eco-somatiche attraverso le quali connettersi con le proprie molteplicità, identificandosi con esseri più grandi come montagne o ghiacciai, e comunicare con le antenate. Tali pratiche nelle riflessioni e nei lavori dell’artista costituiscono gli strumenti per la definizione di una prospettiva critica contemporanea di decolonizzazione delle arti e della cultura.
Piña sceglie di dedicarsi alle danze che sono state soppresse e perseguitate, attraverso un processo di riscoperta e rilettura che ne promuove forme di riapparizione contestuale; dopo secoli di repressione, il loro reenactment diventa un atto di resistenza culturale dei corpi. Amanda Piña, che vive a Vienna ma è di origine messicana e cilena, si pensa come artista mestiza, [4] assumendo su di sé la condizione di quelle persone che, muovendosi tra due o più culture, si fanno ricettacolo di tutte le convenzioni del dominio coloniale. A partire dalla necessità di riscrivere la propria identità più e più volte, propone strategie di ribaltamento dell’inventario di conoscenze occidentali, che abbiamo ereditato. Il concetto di mestiza dialoga con quello di frontera, [5] luogo di transizione e di confine in cui culture diverse si incontrano e creano nuove forme di espressione. Nel volume IV di Endangered Human Movements, Piña si interroga sulla propria identità mestiza, iniziando a lavorare a una nuova ricerca insieme a Juan Carlos Palma, Rodrigo de la Torre Coronado e la Escuela Nacional de Danza Folklórica. Tutta la ricerca gira intorno alla Danza de Matamoros, danza che ha radici nella coreografia di conquista spagnola. Nata per mettere in scena la vittoria cristiana sui Mori avvenuta nella penisola iberica, la danza de moros y cristianos viaggia nelle navi dei conquistadores e viene riproposta nel periodo della conquista delle Americhe, dove le popolazioni indigene erano costrette a rappresentare, a mettere in scena la loro sconfitta. Con il passare degli anni, las danzas de conquista sono state recuperate dalle culture locali, che se ne sono riappropriate, producendo fabulazioni su altri possibili epiloghi per le Americhe. La Danza de Matamoros, anche chiamata Ejido 20, è attualmente ballata lungo tutto il confine Messico-Usa. Oggi, grazie a Rodrigo de la Torre, riletta alla stregua di una rivendicazione della propria esistenza e presenza nei territori di confine. [6] Caratterizzata da passi forti che puntano i piedi sulla terra, è intesa come un antidoto contro le maledizioni che colpiscono le persone al confine, che con quel gesto prendono posizione, calpestano la terra e proclamano il diritto a occupare i luoghi.
Frontera / Procesión – Un ritual de agua
Il volume IV contiene diverse opere sorelle, l’ultima della serie è Frontera / Procesión – Un ritual de agua, opera pensata per essere eseguita in un ambiente urbano, che prevede l’attraversamento dello spazio cittadino. Un aspetto importante di questo volume è l’essere pensato appositamente per un pubblico europeo con l’intento di restituire all’Europa una danza importata nelle Americhe come strumento di dominio, ma trasformandola da danza de conquista a danza de re-conquista. Si può leggere come un omaggio a tutte le persone migranti che abitano il suolo europeo.
La processione è stata concepita, in dialogo con Piersandra Di Matteo, per l’edizione 2021 di Short Theatre. L’opera ha mobilitato diverse realtà del territorio romano, avviando una collaborazione con la sartoria sociale Coloriage e con una serie di associazioni che sono state invitate a prendere parte attiva nella restituzione, tra le altre Asinitas, Carrozzerie n.o.t, CivicoZero, Lucha y Siesta, MaTeMù, SìR – Sharing In Roma, Questa è Roma.
La frontiera per Amanda Piña, non è solo un luogo ma qualcosa che rimane impresso nei corpi: contro ogni paradigma coloniale di universalismo, la Escuela de Frontera non può parlare se non a chi incarna una storia di oppressione.
La Escuela de Frontera ha visto due fasi: una in luglio in cui la sartoria sociale Coloriage ha collaborato con Amanda Piña per la realizzazione della nahuilla, [7] favorendo una contaminazione tra le diverse pratiche di artigianato sartoriale e portando avanti il proposito di rimanere luogo di incontri creativi per persone migranti e rifugiate. La nahuilla, anche chiamata delantar è una gonna tradizionale preispanica, solitamente realizzata con fasce di plastica colorata viene poi decorata con paillettes e ricami di immagini religiose, la più diffusa è la Virgen de Guadalupe. Nel contesto di Roma la nahuilla viene rilavorata e ripensata insieme a Coloriage, le bande di plastica vengono sostituite da cotoni wax provenienti dall’Africa dell’Ovest e le corolle dei fiori prendono il posto delle figure religiose. In questa nuova nahuilla, creata appositamente per Frontera /Procesión – un ritual del agua, si viene a creare un mestizaje tra gli elementi tradizionali della cultura mesoamericana e quelli subsahariani.
Il secondo momento della Escuela de Frontera è stato in 2021 presso gli spazi del Teatro India dove trenta donne, provenienti da associazioni e centri antiviolenza attivi sul territorio romano, hanno incontrato la compagnia di Amanda Piña per la trasmessione della danza de Frontera. È importante soffermarsi sulla scelta delle partecipanti, secondo Amanda Piña solo le persone che hanno vissuto un’esperienza di confine possono eseguire e imparare la danza. La frontera non è intesa solo come confine geografico ma è qualcosa che rimane impresso nei corpi che la attraversano fisicamente e simbolicamente, La Danza de Matamoros parla anche a chi ha affrontato un percorso di transizione, parla alle seconde generazioni, parla alle persone che hanno impressa nella loro carne una storia diasporica.
Per rendere possibile il lavoro con partecipanti è stata attiva una rete di collaborazione che prevedeva un servizio di pick up fino al Teatro India, per fasi di lavoro collettivo basate su orari di lavoro o impegni dedicati alla cura. Questo ha permesso il confluire di soggettività provenienti da diversi quartieri di Roma. Inoltre, è stato istituito per tutta la durata del workshop, un servizio di baby-sitting, che ha favorito la creazione di un ambiente attento alla cura delle persone che vi partecipavano.
È dai cancelli del Mattatoio di Roma ha inizio la performance. Circa trenta donne a coppie di due, e in fila, attraversano le vie di testaccio accompagnate da due musicisti con strumenti a percussione in una sorta di processione. Le performer si riversano per strada, camminando e indossando i vestiti tipici della Danza de Matamoros: una maglietta, scarpe da ginnastica e la nahuilla. Nella mano destra tengono stretta una maraca, che suonano per gran parte della performance. Quando i ritmi delle percussioni si fanno più energici e ravvicinati, il camminare si trasforma nel movimento coreografico della Danza de Matamoros; quando la musica si ferma riaffiora in maniera più chiara il suono delle maracas. Alternando la marcia alla danza il gruppo raggiunge Piazza Testaccio, e si posiziona davanti agli scalini della Fontana delle Anfore, una parte sale i gradini, l’altra si siede e iniziano a creare una composizione di corpi, mantenendo lo sguardo dritto davanti a sé. Nel “silenzio” della città sentiamo una voce che narra la storia dell’acqua (è un audio in filodiffusione), del suo non conoscere confini, del suo movimento che attraversa corpi umani e non-umani:
Qui in questo luogo, su questa fontana, questa sorgente, qui rivendichiamo la solidarietà tra i corpi d’acqua – pensiero planetario femminista, migrante e solidale, l’acqua non rompe la roccia con la sua forza ma con la sua persistenza, questo è un rituale d’acqua. [8]
All’ascolto delle parole la composizione dei corpi si sfalda e ricompone; alcune si posizionano ai lati della fontana; negli scalini rimangono solo poche performer. Iniziano un processo di costruzione di un movimento vivo, posizionate centrali di fronte alla fontana danno l’impressione di farne parte. I loro gesti sono rallentati, sembrano seguire il ritmo dato dalla respirazione di una di loro. I corpi sono posizionati in maniera simmetrica come la struttura della fontana, fino a dare l’impressione di sorreggere getti d’acqua. Prende avvio un ciclo di sculture corporee collettive. Assistiamo a un processo trasformativo, nel quale i corpi si fondono gli uni con gli altri, fino a convocare sembienti più-che-umani. Quando le costruzioni collettive di corpi si disgregano riprendono i movimenti della Danza de Matamoros, veloce e battente, è accompagnata dal suono di maracas e percussioni. A ballarla ci sono anche Rodrigo de la Torre e Juan Carlos Palma, i leader della danza. Si può sentire il rumore dei corpi che si muovono all’unisono e dei passi fortemente pressati a terra. La danza viene eseguita dalle interpreti che si danno il cambio, eseguendola anche con strutture diverse, delle volte seguendo geometrie circolari, delle volte in linea retta.
La forza politica che questi corpi portano con sé nell’eseguire questa danza di frontiera come spazio di rivendicazione è ora un fatto incarnato al centro di una piazza gremita di Roma, rivelando la propria natura di pratica decoloniale. La persona mestiza che le esegue rivendica il diritto alla terra che calpesta tutti i giorni, il diritto di fuga e quello di stare nel luogo e in cui vive. La danza, in origine, prevedeva l’utilizzo di huaraches, calzature simili a sandali che producono un suono molto marcato quando vengono a contatto con il suolo, de la Torre gli ha sostituiti con delle sneaker; a ricordare che le coreografie di confine sono sostenute da corpi sempre in transizione, in perenne stato di incertezza e precarietà. Più forti saranno le impronte a terra, più forte sarà la voce che grida. Un movimento, nato come danza di conquista, impiegato per esercitare fisicamente la superiorità bianca/europea diventa, qui un’azione di riconquista potente perché collettiva.
▽ La performance partecipativa Frontera / Procesión – Un ritual de agua di Amanda Piña è stata presentata in Piazza Testaccio nell’edizione Short Theatre 2021.
[1] S. Rivera Cusicanqui, Ch’ixinakax utxiwa: una reflexión sobre prácticas y discursos descolonizadores, Retazos-Tinta Limón, Buenos Aires 2010, p. 62.
[2] Con il termine, Piña, sottolinea il luogo di un posizionamento istituzionalizzato, a partire dal quale viene osservato e interpretato il mondo. È strettamente legato al termine negritudine, utilizzato da Aimée Césaire nel saggio del 1950, Discorso sul colonialismo, seguito da discorso sulla negritudine. Secondo Bolívar Echeverría, autore e filosofo ecuatoriano, la blanquitud non è semplicemente un attributo razziale, ma un modo di essere, di comportarsi e un’identità culturale associata all’ethos del capitalismo. Gaia Giuliani, ricercatrice, filosofa e autrice, invece descrive il concetto di blanquitud (whiteness) come una costruzione sociale e culturale che viene creata e sancita attraverso leggi e politiche per dare potere al gruppo dominante.
[3] Piña crea contesti favorevoli affinché movimenti e pratiche ancestrali possano riemergere. Come il pensiero al plurale che promuove la molteplicità degli sguardi e delle posture, la prospettiva dell’universale, egemone nella cultura coloniale moderna, ha imposto l’idea che il soggetto è unico, anziché multiplo e frammentato. Nel contesto amerindio l’identità è, al contrario, plurale e distribuita anche su diversi stati, vegetale, animale e minerale. Amanda Piña esplora queste molteplicità nella performance The Jaguar and the Snake. Endangered Human Movements Vol. 3 (2017).
[4] Il termine mestiza fa riferimento al lavoro di Gloria Anzaldúa, cfr. G. Anzaldúa, Terre di confine. La Frontera. La nuova mestiza. (1987), Black Coffee, Firenze 2022.
[5] Il termine frontera fa riferimento al lavoro di Gloria Anzaldúa.
[6] La città di Matamoros si trova sulla sponda del Rio Grande, uno dei luoghi di maggiore attraversamento del confine, animato da forti tensioni e conflitti tra bande.
[7] Utilizzata anche nella Danza de Matlachines.
[8] Parte del racconto sulla storia dell’acqua.
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Anna Purna Nativo, nata a Buenos Aires migra in Italia assieme alla famiglia nel 2003. Attualmente studia Teatro e arti performative presso l’Università Iuav di Venezia. Si occupa di epistemologie femministe e di pratiche decoloniali con un interesse più spiccato verso le modalità con le quali prendono forma nelle Americhe.
Amanda Piña è una artista, coreografa e curatrice cilena-messicana-austriaca che attualmente lavora tra Vienna e Città del Messico. Nel 2014 ha fondato il progetto Endangered Human Movements con il desiderio di far riapparire pratiche corporee ancestrali a rischio di estinzione. La sua ricerca esplora l’intreccio tra decolonialità ed ecologia. Nel suo ultimo lavoro (2024), To Bloom () Practicas de Florecimiento, esplora l’acqua come entità fluida e l’oceano come luogo dove si depositano conoscenze ancestrali. Il suo lavoro è stato sostenuto finanziariamente da diverse istituzioni europee e americane come il Dipartimento della Cultura della città di Vienna, il Ministero della Cultura del Messico, il programma cileno per le arti e la cultura (Fordart), tra gli altri.
VIANDANZE è la sezione di CUT/ANALOGUE delle scritture in interdipendenza dinamica con le pratiche artistiche e le opere presenti al festival (e altrove). Propone una forma di prossimità somatica tra chi osserva e chi è osservato per far balenare pensieri sul sensibile che avviene in scena.