VIANDANZE

Leggere per noi

di Barbara Leda Kenny
Il Teatro India ha accolto la lecture Sometimes and Across: Writing and Imagination in Detention della scrittrice messicano-statunitense Valeria Luiselli, nella quale ha affrontato, in dialogo a distanza con alcune donne in stato di detenzione, esperienze di sradicamento e perdita, facendoci entrare nella filigrana politica delle sue pratiche di documentazione e scrittura.
Condividiamo il ritratto profondo di Barbara Leda Kenny, che ha introdotto Valeria Luiselli nel programma di Short Theatre 2024.

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Quando sono diventata libraia ho smesso di leggere. Nel senso che ho smesso di leggere per me. Ho iniziato invece a leggere pensando alla costruzione di un catalogo femminista,
alla libreria come a un archivio vivo del pensiero. Un luogo in continua trasformazione dove decodificare il presente.

Leggere per me è diventato leggere per noi. Questo noi è una comunità legata da affinità e da un posizionamento che si esplicita nei nostri corpi.
Leggere per noi significa pensare a come un libro ci parla, ci fa sentire scomode, ma nel senso buono, quel senso che ci muove, che ci obbliga a prendere atto.

Da quando ha aperto Tuba ho iniziato a leggere tenendo a mente le altre. A questo ho pensato quando ho letto i libri di Valeria Luiselli, all’articolazione porosa, osmotica, vitale tra l’io e il noi. A cosa significa scegliere per raccontare: vagliare fonti, isolare suoni, mescolare voci
per costruire una narrazione che sia anche orizzonte. Scegliere libri. Scegliere parole.
Nelle opere di Valeria Luiselli i libri delle altre e degli altri sono sempre presenti, esplicita i riferimenti, li offre. Valeria Luiselli legge per scrivere e poi scrive per noi.
La sua scrittura è un atto politico.

In Dimmi come va a finire, uno dei suoi saggi scrive:

Perché come si fa a spiegare che non è mai l’ispirazione a spingerti a raccontare una storia, ma piuttosto un misto di rabbia e di lucidità? Come fai a dire: no qui non troviamo nessuna ispirazione, troviamo un paese meraviglioso e lacerato, e in un modo o nell’altro ne siamo parte, e dunque anche noi siamo lacerati, e proviamo vergogna, confusione e talvolta disperazione, e stiamo provando a capire se possiamo fare qualcosa per rimediare a tutto questo.

SpingerTI a raccontare una storia, STIAMO provando a capire se possiamo fare qualcosa.
Io e noi. Dal singolare al plurale.
Dalla frustrazione all’azione. Uno spostamento che implica movimento.

movimento
portarsi nei luoghi

Valeria Luiselli si muove tra paesi, nasce in Messico, ha origini italiane, suo padre è diplomatico e questo la porterà a vivere in diversi luoghi (Stati Uniti, Sud Corea, Sud Africa, India) e anche a desiderare il ritorno: decide di fare l’università in Messico, poi sarà in Francia e in Spagna per approdare negli Stati Uniti a New York. In questo dislocamento continuo, in cui essere e appartenere non sono coordinate date dallo stare e il rimanere, il noi non è un dato aprioristico, ma una scelta. Vivere in paesi e continenti diversi diventa la possibilità di stabilire una connessione con i luoghi basata su geografie personali, il senso di presenza è costruito ogni volta, camminando, osservando, incontrando le persone. Una possibilità che viene raccontata nel suo primo libro Carte false.

Quando decide di vivere a New York, Valeria si scopre a essere definita “non resident alien”:

È questo il termine usato per descrivere chiunque venga da paesi diversi dagli Stati Uniti – alieno – che sia residente o meno. A quanto ne so, ci sono i ‘non resident aliens’, i ‘resident aliens’ e persino i ‘removable aliens’, ossia stranieri che possono essere rimossi. Noi aspiravamo a diventare ‘resident aliens’—Dimmi come va a finire

Ed è da questa situazione, che è di privilegio, e tuttavia precaria, che Valeria Luiselli, di fronte a decine di migliaia di bambini e bambine che attraversano il confine del Messico con gli Stati Uniti cercando asilo e riparo da vite da incubo, nel 2015 decide di fare da interprete volontaria nei tribunali. Un’esperienza che diventa il libro “Dimmi come va a finire” in cui la struttura è data dalle quaranta domande che compongono un questionario che permette agli avvocati di sostenere le richieste di asilo delle bambine e dei bambini.

I numeri e le mappe raccontano storie dell’orrore, ma le storie più orrende sono forse quelle per cui non ci sono numeri, né mappe, né possibili responsabilità, né parole che siano mai state scritte o pronunciate. E forse l’unico modo per fare giustizia – se mai fosse possibile – è di ascoltare e narrare mille volte queste storie, in modo che non smettano mai di ossessionarci, di farci vergognare.—Dimmi come va a finire

Attenzione, la pratica politica di Luiselli è dentro e fuori dalle pagine, è nell’ascolto, nella relazione che l’ascolto prevede, nei corpi, nella frustrazione, nella messa in gioco personale nel collettivo e in come tutto questo diventa narrazione. Valeria scrive in dialogo con i lavoratori di una fabbrica, fa la volontaria nei tribunali di New York per le richieste di asilo dei bambini e le bambine, tiene un laboratorio di scrittura in un centro per minori non accompagnati. Una pratica del mondo che nutre la scrittura, e viceversa.
Migrazione, appartenenza, perdita sono i temi che ricorrono nella sua vita e nel suo lavoro.
I protagonisti non hanno mai nome e parlano in prima persona provocando uno spaesamento intimo.
Ne l’Archivio dei bambini perduti l’ultimo romanzo pubblicato, uscito in Italia nel 2019, i piani della finzione e della realtà si mescolano. È un testo che si muove su più registri, creando tracciati, come sentieri che si possono percorrere dentro e oltre il racconto.

È un libro in cui si legge un libro, un libro che racconta bibliografie, un libro tra la storia e il presente. Luiselli parla del suo lavoro chiamandolo “documentary fiction” pratiche documentarie che portano alla costruzione di finzione.
I protagonisti madre, padre e due bambini: il maschio e la femmina, la femmina figlia della madre, il maschio figlio del padre, intraprendono un viaggio per gli Stati del sud: Texas, New Mexico, Arizona, un viaggio per documentare gli echi degli Apache – suoni che raccontano assenze – e le storie dei bambini perduti alla frontiera. I protagonisti sono acustemologisti, o documentaristi, o do cu men te cari: il loro lavoro è fonte di digressioni, bibliografie, riflessioni su cosa significa archivio, cosa significa documentare, cosa ha senso documentare, come e di cosa si nutre il senso del documentare.

Prima, quando sei ancora impegnato a registrare, il tuo obiettivo è avvicinarti quanto più possibile alla fonte sonora, dice uno dei personaggi di Luiselli.

Se l’ascolto delle storie dei bambini è la premessa necessaria per scrivere prima Dimmi come va a finire e l’Archivio dei bambini perduti poi, le riflessioni sulla frontiera e il suono seminano il terreno per Echoes from the Borderlands: un’opera sonora dove con Ricardo Giraldo e Leo Heiblum esplora le storie di violenza lungo il confine tra Stati Uniti e Messico. Partendo dall’Oceano Pacifico lungo la costa di San Diego e Tijuana e viaggiando verso est fino al Golfo del Messico, questo progetto mescola paesaggi sonori, melodie, registrazioni d’archivio e sul campo e interviste per affrontare il genocidio dei popoli nativi, la migrazione, i diritti riproduttivi e la distruzione ambientale.

Rileggo Archivio dei bambini perduti questa estate.
Uno degli argomenti di conversazione con i miei amici è il naufragio di una grande barca a vela di lusso dove un gruppo di ultraricchi era in vacanza. I media ci raccontano tutto di queste persone, le loro aspirazioni se sono giovani, i loro successi se sono adulti, gli amori, i luoghi di nascita, chi li piange. Assistiamo esterrefatti a una narrazione che stride ancora di più quando riguarda sette sole persone.

«Perché essere consapevoli di ciò che sta accadendo nel nostro tempo e scegliere di non fare niente in proposito è diventato inaccettabile perché non possiamo più permetterci di considerare normale l’orrore e la violenza. Perché tutti quanti saremo chiamati a render conto di ciò che succede sotto i nostri occhi senza che nemmeno osiamo guardare». (Dimmi come va a finire)

Agli articoli di approfondimento sullo yatch affondato segue un titoletto “Migranti. Naufragio al largo di Lampedusa 41 morti”. Di questi morti-numero nulla sappiamo, non hanno storia, non hanno nome, non hanno età. Non ci è dato sapere chi li piange.
Non ci sono sommozzatori a cercare i corpi, non avranno altra sepoltura che il mare.

Dall’Archivio dei bambini perduti: «Questo paese, ha detto papà, è tutto un cimitero, un enorme cimitero, ma solo poche persone hanno una vera tomba, perché la vita di gran parte della gente non conta nulla. La maggior parte delle esistenze viene cancellata, va perduta in quel vortice di spazzatura che chiamiamo la storia» è una frase che evidenzio, a cui penso.

Il lavoro di Luiselli è stato tradotto in moltissime lingue, e questo viene a dire che in luoghi diversi tante persone hanno attinto a questo pezzo del nostro archivio vivo. È un invito continuo a cambiare la storia, a guardare e raccontare, a fare che invoca quel noi che è la possibilità di non cedere all’impotenza in un atto di sovversione come possibilità di immaginare altro. Dobbiamo solo e ancora continuare a riconoscerci e nutrirci per far germogliare questo noi, oltre le pagine.

È con grande piacere che vi invito ad accogliere Valeria Luiselli.

Valeria Luiselli, Teatro India, foto Claudia Pajewski.

 

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Barbara Leda Kenny è socia della libreria delle donne Tuba, curatrice di inQuiete Festival di scrittrici a Roma ed è la coordinatrice della rivista inGenere.it.


VIANDANZE è la sezione di CUT/ANALOGUE delle scritture in interdipendenza dinamica con le pratiche artistiche e le opere presenti al festival (e altrove). Propone una forma di prossimità somatica tra chi osserva e chi è osservato per far balenare pensieri sul sensibile che avviene in scena.


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