COMBIN/AZIONI

L’assolo multiplo di Dorothée Munyaneza

di Sara Innamorati
La voce può manifestarsi nella preghiera quanto nella protesta. Ci sono entrambe queste dimensioni nella ricerca di Dorothée Munyaneza, artista multidisciplinare che combina musica, testi e movimento per esplorare la rottura come forza creativa. Le sue opere emergono come un intreccio di corpo, memoria e voci. Nella performance a capella, presentata nell’edizione 2024 di Short Theatre, la sua voce diventa uno spazio di risonanza per molte altre: canzoni ruandesi e altre voci della diaspora africana si mescolano a diverse lingue dando corpo e voce a coloro che rimangono nell’ombra, tessendo un filo tra assenza e presenza, tra passato e futuro, con una vocalità priva di artifici e di confini musicali definiti. Oltre alla performance, Munyaneza ha condotto al Teatro India il workshop Reflecting the Times, nello spazio pedagogico di RECIPROCITY.

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Sara Innamorati: A capella è un termine della tradizione musicale occidentale che descrive un insieme di voci impegnate nell’esecuzione di un brano musicale senza accompagnamento strumentale. A partire dall’idea della voce come strumento musicale autonomo, cantare “a cappella” prevede la convivenza di più voci sovrapposte in un contrappunto complesso. Nel lavoro che presenti a Short Theate 2024, l’aspirazione alla polifonia passa attraverso una voce sola…

Dorothée Munyaneza: Credo che la ragione per cui ho scelto il canto “a cappella” sia perché sono interessata alle storie, alle sue voci singolari e collettive, e a ciò che hanno da dire. Voglio porre attenzione su chi ha il potere di dirle, su chi ha il potere di ascoltarle, su chi ha accesso a queste storie e le può condividere. La mia prima formazione è da musicista, così inizia il mio percorso di ricerca. Della composizione musicale mi interessa la possibilità di trasmettere storie dimenticate nella combinazione tra suono e parole composti o ricomposte. Focalizzarmi in solo con la mia voce, con il mio corpo può essere veicolo per voci non più presenti. Anche se non sono in compagnia di altre fisicamente, non sono affatto sola: porto con me viaggi, incontri, vicende che mi hanno preceduta, genealogie. Sento che questo atto performativo può essere inteso come un assolo multiplo.

a capella di Dorothee Munyaneza. Foto Claudia Borgia.

In a capella il tuo corpo-voce diventa dunque un veicolo di trasmissione?

Direi di sì. In particolare, con questo pezzo ho cercato di capire di chi sono le storie che ascoltiamo. Uso diverse lingue, quindi ogni volta che eseguo questo pezzo cerco sempre di integrare la lingua della città dove performo, in questo caso l’italiano, ma c’è anche francese e tedesco e lingue non europee come la mia lingua, quella del Ruanda. E cerco, allo stesso tempo, di intrecciare e creare questo contrappunto tra le lingue e il modo in cui si sovrappongono per diventare polifonia; manifestare un intreccio di complessità. Lo sfondo storico e politico del suono e delle parole che convoco, entrano nel mio corpo, nello spazio, ma anche nella flessuosità del mio costume che è un altro spazio di espressione.
A capella è un lavoro impegnativo perché non ho nessun posto dove nascondermi. Da cantante so che la voce è uno strumento potente ma vulnerabile, suscettibile a un sentire profondo. Dipende da come sono state le mie giornate, da quello che ho percepito, e chi ho incontrato: sono contatti che influenzano politicamente il mio corpo e suoi risuonatori.

a capella di Dorothee Munyaneza. Foto Claudia Borgia.

Ma questa moltitudine è in risonanza con una forma di solitudine?

C’è uno spazio in cui il compositore entra che non chiamerei necessariamente solitudine, perché c’è qualcosa di malinconico e piuttosto tragico nel termine solitudine. Per me essere sola è in qualche modo una forma di conquista, una sorta di emancipazione perché devo fare affidamento su me stessa, sul mio potere, ed è uno stato che invita anche a scavare in altri luoghi e affetti per creare risorse per me. Cerco di entrare da sola in quello spazio, in quella modalità di composizione, sapendo che sono accompagnata da esseri invisibili, dai miei antenati, da tutti gli esseri viventi con cui provo a instaurare una relazione basata sull’ascolto. Non si tratta solo di presenza umane ma degli alberi, delle rocce, del fiume che ho visto quando sono arrivata qui: ho cercato di prendere forza anche da quell’acqua per arrivare a questa fluidità che è a capella.

Le voci della tratta atlantica risuonano con quelle delle persone che ogni giorno cercano di attraversare il mediterraneo centrale…

Le voci di persone di origine africana che attraversano il Mediterraneo ogni giorno restano inascoltate. La loro sparizione è una tragedia che si rinnova. Anche durante la schiavitù, quando le persone venivano prese in consegna durante l’intero periodo della tratta degli schiavi, le voci venivano silenziate, allagate, annegate nella deportazione in Sud o in Nord America.
Con a capella sto cercando di portare con me non la mia storia, non la mia vicenda singolare, ma appunto quelle di altre persone nell’evocazione. Penso allora la voce come un altoparlante attraverso il quale mettere a lavoro una ricerca di quiete. Il riflesso della migrazione è presente come atto di commemorazione di persone che hanno amato, sperato e avuto paure.

Il tuo lavoro è sempre un intreccio di storie che provengono dalle narrazioni dell’Africa, un intreccio asincrono di passato e futuro che è il modo in cui emerge un corpo diasporico…

Sono interessata a osservare come agiamo nel mondo, quale postura assumiamo, cercando di rivelare la soglia porosa tra la volontà, l’obbligo o la coercizione. Il corpo diasporico porta il segno di uno strappo, e il mio lavoro è un tentativo tutte le volte di guardare a quello strappo. Anche il movimento coreografico riguarda la rottura.
Sono stata una bambina di origine africana cresciuta in Ruanda. Ho un rapporto stretto con la mia terra, con le storie della mia terra e del mio popolo. Ho poi vissuto in Europa per diversi anni e mi sento europea in un certo senso. Ho imparato le lingue europee: parlo inglese, francese, tedesco, ora sto iniziando a imparare lo swahili, lingua dei Paesi dell’Africa orientale.
So bene di presentare il lavoro di fronte a una maggioranza di persone bianche che possono essere più o meno sensibili su alcuni argomenti, ma si tratta di ingaggiare gli spettatori a livello artistico. Mi interessa il modo in cui ci connettiamo in quel particolare momento. Non sono qui per insegnare o educare qualcuno. Ma solo per accendere una fiamma o rivelare una forma di disagio come diaframma di condivisione. Spero che qualcosa possa andare in tilt. Si tratta di creare frequenze in cui tutti possiamo vibrare. E a volte può essere armonioso, a volte dissonante. Volevo sentire qualcosa senza trasformarmi in un prodotto esotico.

 


Sara Innamorati (2000) ha curato, scritto e organizzato per Scomodo format editoriali, articoli ed eventi culturali. Ha collaborato con Amnesty International, il festival RomaDiffusa, LOCALES, il Salerno Letteratura Festival. Ora è parte del direttivo e responsabile delle pubbliche relazioni e sponsor per il TedxSapienzaU.

Dorothée Munyaneza è artista multidisciplinare che usa musica, canzoni, testo e movimento per affrontare la rottura come forza dinamica. Munyaneza si ispira a storie realmente accadute, interpellando corpo, memoria e il nostro tempo per creare uno spazio di risonanza. Originaria del Rwanda, si trasferita in Inghilterra con la famiglia nel 1994, ha studiato alla Jonas Foundation di Londra, e musica e sociologia a Canterbury, prima di trasferirsi in Francia. Ha collaborato con François Verret, Radouan Mriziga, Alain Mahé, Jean-François Pauvros, Robyn Orlin, Ko Murobushi, Nan Goldin, Stéphanie Coudert, Rachid Ouramdane, Maud Le Pladec, Alain Buffard, Maya Mihindou e Ben LaMar Gay. Nel 2013 ha fondato la compagnia Kadidi a Marsiglia. Ha tradotto in francese Hopelessly Devoted di Kae Tempest, che metterà in scena a novembre su invito del Bouffes du Nord di Parigi. Al momento è artista associata al Théâtre National de Chaillot e la Maison de la Danse e la Dance Biennale di Lione, e residente alla Fondation Camargo.


COMBIN/AZIONI è la sezione di CUT/ANALOGUE delle conversazioni, spazio per un materiale che si attiva in una reciproca implicazione. Campo di possibilità discorsive che si generano come mescolanze dinamiche tra soggetti, situate in un tempo, contingenti.

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