Ripensare l’articolazione tra sessismo e razzismo nell’epoca della postcolonia
Elsa Dorlin
(traduzione di Brune Seban)
Dal concetto di performatività del genere all’imitazione coloniale
Nel 1990 Judith Butler pubblica Gender Trouble (Scambi di genere. Identità, sesso e desiderio, Sansoni, 2004). Nell’ultimo capitolo, la filosofa elabora il suo concetto principale di performatività del genere. Si tratta di partire dall’idea secondo la quale «il corpo è modellato da forze politiche che hanno strategicamente interesse a far sì che rimanga finito e costituito dai marcatori del sesso»[1]. In altre parole, il corpo, il corpo sessuato, non è un fondamento saldo e irremovibile, uno zoccolo naturale delle gerarchie e delle divisioni sociali. Il corpo sessuato non è causa di – né produce – un rapporto di potere, ma ne è piuttosto l’effetto, nel senso che è disciplinato, modellato da questo rapporto, che rinvia a un sistema di dominazione, articolato all’eterosessualità riproduttiva. Così, quel disciplinare il genere agisce sul corpo mentre lo produce come corpo sessuato. Di conseguenza, il corpo non ha un significato originale, una materialità pura, “vergine” da ogni potere, indipendentemente da questa produzione disciplinare che lo costituisce. Ciò non significa però che non siamo condizionati a credere alla nostra “vera identità”, ai nostri “desideri nascosti”, al nostro “vero io”… il che serve a rendere invisibile tutte le strategie di incorporazione di questa disciplina, tutti i meccanismi sociali di interiorizzazione del rapporto di genere. «In altri termini, gli atti, i gesti, i desideri espressi e realizzati creano l’illusione di un nocciolo interno e organizzatore del genere, un’illusione mantenuta dal discorso per regolare la sessualità»[2].
Inspirandosi alla filosofia del linguaggio di John Austin e alla sua distinzione tra enunciati descrittivi, dichiarativi e performativi[3], Butler definisce la disciplina del genere come atti, gesti e compimenti “performativi”, nel senso in cui fanno ciò che dicono. E cosa dicono? Che cosa fanno? Fanno “soggetti gendered” (i.e. caratterizzati dal punto di vista del genere. Non trovando un termine che renda questo concetto, lasciamo il termine originale, NdT), che hanno un genere, nel senso che fanno esattamente ciò che dovrebbe definirli dal punto di vista del genere. Gli atti producono i loro stessi agenti, i loro creatori/locutori: gli atti gendered producono i soggetti gendered che li possano effettuare. L’insieme di queste pratiche, che sono rituali sociali coercitivi che compiamo per segnalarci, per segnarci, per comportarci in quanto “uomini” e “donne”, sono tutti enunciati performativi che fanno ciò che dicono: sono una donna o sono un uomo (e infatti guardate come cammino, come mi vesto, come parlo, come sorrido, come inchino il viso, come mangio, come corro, come faccio a botte – o non faccio a botte –, come piango, come scopo…). Qui non esprimo la mia identità, ma la produco nel momento in cui la metto in atto, non smetto mai di recitarla, di incarnarla letteralmente. Sull’esempio dei performativi classici come “Vi dichiaro marito e moglie”, “La condanno”…, si potrebbero considerare performativi gli enunciati dell’addetto dell’anagrafe, o meglio ancora quelli della persona che dà i risultati dell’ecografia al quinto mese di gravidanza: “è femmina!” o “è maschio!” sono performativi.
Il genere quindi non è un fatto, un dato, ma un insieme di pratiche (disciplinari) di atti (ingiunzioni, richiami) che funzionano, che si effettuano. Il genere è un rapporto in atto, ma che, appunto, si traveste. Ne è testimone il fatto che il genere come performativo debba costantemente ridirsi, ripetersi, non ha nessuna efficacia senza la propria reiterazione: il genere non si dichiara una volta per tutte, deve essere sempre ripetuto. È perennemente rimesso in atto: si tratta di un rituale che siamo chiamati a compiere ed è esattamente tramite questa ripetizione che il rapporto di genere riesce a mascherare il fatto che è un rapporto sociale (cioè una costruzione e una dominazione). Così, lungi dall’essere “solo discorso”, o dallo sminuire la dimensione essenzialmente violenta del rapporto di genere, Judith Butler sviluppa al contrario il concetto di performatività del genere per pensare la materialità del genere come costruzione sociale. Questo concetto le permette quindi di afferrare la logica stessa della dominazione di genere, ma anche le sue brecce: è nella ripetizione, la reiterazione inadeguata, sfasata, del performativo, che risiede la sua possibile sovversione. «La costruzione ci obbliga a credere nel suo essere necessario e naturale […]. Se questi stili sono prodotti da atti e se producono soggetti gendered con coerenza, che fanno credere di essere i loro stessi creatori, che tipo di performance potrebbe rivelare che questa apparente “causa” è in realtà un “effetto”?»[4]. La domanda fatta da Judith Butler rimanda a ciò che John Austin chiama “enunciati infelici”. In altre parole, a quali condizioni un enunciato performativo non funziona? Come rendere “infelici” i performativi di genere, cioè renderli improduttivi, non funzionanti per quanto riguarda le nome di genere? L’esempio emblematico saranno le performance drag: la loro performance non è sovversiva di per sé, ma permette di capire come attaccare la performatività del genere. [Ciò che interessa Butler è illustrare come la performance della drag queen, con la sua esuberanza e sovversione, è esattamente equivalente a ciò che facciamo ogni giorno quando siamo “normalmente” uomo o donna: io o la drag queen, è sempre performance. Non c’è da una parte il finto, il trucco, le paillettes, le ciglia finte e la parodia e dall’altro il vero, l’autentico, il naturale, cioè il modello al quale si ispira la parodia. Il cuore della sua argomentazione è dimostrare che quando si tratta di genere, non c’è nessun modello, non c’è il genere “autentico”: il genere è sempre una parodia senza modello[5]]. Si tratta di fare vedere che il soggetto gendered non è la causa dei suoi atti e discorsi, ma il loro effetto.
Nel 1993 Judith Butler ritorna sul suo concetto di performance/performatività del genere con Bodiesthatmatter (Corpi che contano. I limiti discorsivi del “Sesso”, Feltrinelli, 1996) prendendo in particolare in considerazione una serie di critiche che le erano state fatte. Già nell’apertura del capitolo CriticallyQueer accenna, con un interrogativo, alla possibilità di trasporre la sua analisi al razzismo[6]. Butler lascia la questione in sospeso in questo testo e ci tornerà ampiamente nel 1997 con Excitable Speech. A Politics of the Performative, 1997 (Potere delle parole / Parole che provocano. Per una politica del performativo Raffaello Cortina editore, 2010), ma occupandosi solo dei discorsi di odio (sessismo, lesbofobia/omofobia, razzismo). Per quanto mi riguarda, voglio provare qui a utilizzare direttamente il concetto di performatività applicato alla questione del razzismo. Questo permetterebbe forse di ripensare l’articolazione tra sessismo e razzismo, proponendo un’analisi della creazione di questi due rapporti di dominazione.
Capita spesso che, trovandosi nel corso di un certo processo, accada di trovarsi di fronte a quelle che sembrano coincidenze, e che invece tali non sono: nomi che tornano, concetti che riecheggiano, questioni che, segnate dal tempo, riemergono trasformate, illuminate di nuove sfumature e colorando di altrettante quelle intorno. Nel tentativo di inseguire le concatenazioni, i riverberi, le risonanze tra le esperienze, di cui si compone questa edizione di Short Theatre e il suo catalogo, ci siamo imbattute in una di queste non-coincidenze. Il dialogo con Ilenia Caleo, curatrice del Modulo Arti del Master in Studi e Politiche di Genere di Roma Tre – con cui Short Theatre collabora da tre edizioni, ha fatto emergere l’esistenza di questo “vecchio” testo di Elsa Dorlin – invitata a tenere una lectio pubblica al festival – che nel 2008 era stato pubblicatosul primo numero di ControStorie_Razzismo_Genere_Classe, rivista di xxxx
In “Performa il tuo genere, performa la tua razza!” Ripensare l’articolazione tra sessismo e razzismo nell’epoca della postcolonia, tradotto in italiano da Brune Seban, Elsa Dorlin prende le mosse dal concetto di “performatività del genere” elaborato da Judith Butler nei primi anni ’90, coniugandolo con quello di “imitazione coloniale” che Frantz Fanon definisce in Pelle nera, maschere bianche del 1952, applicandolo poi alla questione del razzismo, cercando così di ripensare l’articolazione tra sessismo e razzismo, in un momento in cui in Francia il dibattito sull’interesezionalità era acceso e all’ordine del giorno. Un tema che, a distanza di anni, è ancora centrale e da cui dipendono le sorti del movimento transfemminista tutto.
Riallacciamo quindi i fili di questo discorso che, più o meno sotterraneamente, attraversa il dibattito politico in Italia già da decenni, e che ora si fa più pressante che mai, ripubblicandone la traduzione. Un testo che, inevitabilmente, sente il suo tempo ma che contemporaneamente lo stratifica e lo innerva di nuova linfa, portando alla luce la precocità di alcuni flussi del pensiero del movimento femminista italiano e l’importanza, oggi, di riconnettere e rilanciare le genealogie sommerse delle lotte, stringendo nuove – ma in fondo già presenti, attive e feconde – alleanze.
Dal concetto di performatività del genere all’imitazione coloniale
(…) HomiBhabha, una delle figure più importanti dei postcolonialstudies s’ispira a FrantzFanon[7] per sviluppare il concetto di “imitazione coloniale” [colonial mimicry], che potrebbe essere una trasposizione/traduzione interessante della problematica della performatività sulle tematiche del razzismo e della postcolonia. L’imitazione coloniale è definita come «una delle strategie le più difficili da capire ma anche una delle più efficaci del potere e sapere coloniale»[8]. L’imitazione è una delle modalità più tipiche del discorso coloniale. Può essere intesa come tecnica del potere per rinchiudere il colonizzato nell’identità infamante che lo caratterizza: l’identità preclusa dello stereotipo diventa allora l’identità che il colonizzato è costretto a imitare per esistere, di performare per essere riconosciuto. Fanon lo aveva perfettamente dimostrato, lo stereotipo diventa allora il palcoscenico sul quale si recita la soggettivazione del colonizzato, il suo accesso allo status o alla posizione di soggetto, ma anche quella del colonizzatore: è il Bianco che “crea” il Nero, ed è il Nero reso oggetto che crea il Bianco. Lo stereotipo non è tanto una semplificazione quanto un’ossificazione del soggetto all’interno della tipologia razziale fantasticata dove l’uomo bianco, posto in cima, domina gli altri. È ciò che potremmo chiamare la “dialettica del razzismo”.
È partendo da questo punto che bisogna rileggere FrantzFanon, secondo cui ci sono tante identità da imitare, da recitare, tante “maschere bianche”. Pelle nera, maschere bianche: cosa significa questo titolo? Nell’introduzione, Fanon oppone due personaggi: quello del capitolo L’uomo di colore e la Bianca e quello del capitolo L’esperienza vissuta del Nero.
Il primo è colui che cerca di raggiungere l’uguaglianza tramite l’imitazione del Bianco, tuffandosi nel mondo del Bianco, andando a letto con la donna del Bianco[9]: «Non voglio essere riconosciuto come Nero, ma come Bianco. Chi meglio di una Bianca – e di questo riconoscimento Hegel non ha parlato – può riconoscermi come Bianco? Se lei mi ama, mi dimostra che sono degno di un amore bianco. Sono amato allo stesso modo di un Bianco. Sono un Bianco»[10]. Possiamo rilevare qui l’importanza della sessualità, il modo in cui diventa una posta in gioco importante nel contesto del razzismo: la soggettivazione passa necessariamente tramite il rapporto sessuale, ultima tappa del riconoscimento.
L’imitazione è qui imitazione del Bianco, perché il bianco è L’Uomo[11], è Il Soggetto. Tuttavia, come analizza Bhabha, tale imitazione è sempre debole, non funziona mai perfettamente, non riesce mai a far dimenticare che è pur sempre un’imitazione, e rinvia l’imitatore a ciò che non è. È un processo che permette non solo di mantenere l’altro all’esterno del mondo dei dominanti – sempre in una performance imperfetta, infelice della norma – e quindi di escluderlo in quanto impostore, ma anche, allo stesso tempo, di controllarlo completamente, poiché mentre si sforza di imitare non sta inventando nuovi modi di resistenza. Questa tattica coloniale si caratterizza con ciò che Bhabha chiama l’ambivalenza dell’imitazione: «quasi uguale, ma non del tutto» [almost the samebutnotquite[12]]. Perché per essere efficace, l’imitazione deve sempre “esagerare”, è eccessiva per definizione. Ed è grazie a questo eccesso impossibile da nascondere del tutto che il dominato può essere sottomesso. Qui la maschera non è ciò che nasconde, ma appunto l’elemento che segna il dominato, che lo fa vedere e lo mantiene all’interno della recita. Il “soggetto coloniale” – qui soggetto colonizzato, dominato – è definito da questa “presenza parziale”[13] (doppiamente parziale, potremmo dire: la sua identità è sempre nascosta, ricoperta, incompleta come lo è l’identità del colono da imitare, sempre virtuale) che lo caratterizza. L’imitazione segnala la propria presenza tramite le metonimie: lui sta imitando, quindi “è”, ma poiché imita non potrà mai “essere” veramente. Così, quando io imito l’identità dominante, non mi produco mai “io” come soggetto (soggetto attivo dei miei atti, dei miei discorsi, dei miei gesti) poiché mi si smaschera in quanto imitatore. Però, ciò che produco, che realizzo, è il modello originale del Bianco, il Bianco come soggetto autentico.
Nel testo di Fanon, troviamo un secondo personaggio: il Negro.
« – Guarda, quant’è bello, questo negro…
– Sa che vi dice, il bel negro, signora?
[…] poiché l’Altro esitava a riconoscermi, non mi rimaneva che una soluzione: farmi conoscere»[14].
E qui che Fanon decide di «lanciare il suo urlo negro»[15], un tuffo primitivista nella «cultura negra», nella storia del suo popolo: «È il periodo in cui gli intellettuali elogiano la benché minima determinazione del panorama indigeno. Il boubou (vestito colorato diffuso in Africa occidentale e in Nord Africa, simbolo, anche in Francia di “un’identità” africana, ndt) è sacralizzato, le scarpe parigine o italiane abbandonate a favore delle babouches (scarpe piatte di cuoio identificate come appartenenti al mondo africano o arabo, ndt). All’improvviso il linguaggio del dominatore ferisce le lingue. In quel periodo, “ritrovare il proprio popolo” significa a volte voler essere negro, non un negro come gli altri ma un negro vero, un cane di un negro come lo vuole il Bianco. Ritrovare il proprio popolo significa diventare bicot (insulto comune contro gli arabi, ndt), diventare il più indigeno possibile, il più irriconoscibile»[16]. Anche la négritude di Césaire, Senghor e Damas è una deformazione che agisce come “finzione regolatrice”, secondo Fanon[17]. La negritude è una sorta di incorporazione dello stereotipo, anche se rovesciato: “fare il negro” è tutt’insieme recitarlo e fabbricarlo. Le caratteristiche dispregiative sono ri-significate, ri-valorizzate, ma rimane il fatto che i contorni di questa identità sono stati tracciati dai dominanti. La maschera non è caduta. Di più, la maschera non è nera su una pelle nera: la maschera rimane bianca, perché rimanda precisamente a un’identità nera fantasticata dal Bianco, proiettata sul Nero. Dietro l’idea di ritrovare un’identità nera pre-coloniale, un’identità nascosta, ancestrale o ancora autentica che sarebbe nascosta sotto lo stereotipo che siamo stati costretti a imitare, troviamo in realtà un’identità assolutamente coloniale, e moderna[18]: una nuova maschera. Qui ritroviamo il concetto di performatività/performance, poiché tutto è fatto per fare vedere, e far credere all’esistenza di un’identità nera fondamentale, di un soggetto, un agente che sarebbe causa e punto focale di questa cultura “differente”[19].
L’imitazione, o piuttosto la performance, produce dal nulla un soggetto razzializzato, dice di averlo ritrovato, vuole pulirlo dagli insulti del dominante, ma questo soggetto corrobora alla fine l’ideologia razzista, partecipa alla “razzializzazione” del mondo.
Donne nere, sguardi bianchi: il mito del matriarcato.
C’è una relazione di somiglianza tra le analisi di Butler sul rapporto di genere e quelle di Fanon e Bhabha sul rapporto coloniale. La mia ipotesi è che i concetti di performance-performatività / imitazione ci possono permettere di capire insieme sessismo e razzismo. Senza coprire o sovrapporre l’uno con l’altro, si tratta di pensare alla logica che hanno in comune. Per fare ciò, analizzerò prima un esempio storico, poi tenterò di mettere questa ipotesi alla prova della situazione francese attuale.
Negli Stati Uniti, nel periodo della schiavitù e della segregazione razziale, si è sviluppato il concetto di “matriarcato nero” che si ritrova oggi sia nel discorso neoconservatore della destra americana[20] sia in alcune ricerche antropologiche sulla matrifocalità falsamente caratteristica delle società delle Antille o dell’Africa. Mi concentrerò sugli Stati Uniti.
Sin dal periodo della schiavitù, viene costruito questo mito del “matriarcato nero”: una forma di organizzazione sociale totalmente mostruosa, nella quale l’ordine “naturale” dei sessi viene capovolto. Un’organizzazione sociale dove le donne sono presentate come “cattive madri”, donne violente e castratrici. Nella letteratura razzista, la figura della donna nera dal potere castratore va di pari passo con il potere coloniale: infatti una delle pratiche caratteristiche dei sistemi delle piantagioni, schiavisti o coloniali è la castrazione– simbolica e effettiva – dello schiavo e del colonizzato[21]. Nella sua versione contemporanea, il mito del “Matriarcato nero” è largamente diffuso dal rapporto The negro family redatto nel 1965 da Moynihan, secondo cui il matriarcato che regna nella famiglia nera costituisce un «nodo di patologie» morali, sociali e politiche: alto tasso di divorzi, di unioni “illegittime”, «cicli della povertà» e della delinquenza, un matriarcato che, per via della sua dipendenza dallo Stato sociale, ne provoca la rovina[22]. Il matriarcato nero si articola attorno a una figura emblematica: quella della welfare mother o welfare Queen (che traduco “la Regina dei sussidi”). Questa figura è eminentemente sessuale, sovraerotizzata e sovravirilizzata allo stesso tempo, e ciò permette di assicurarsi la longevità del suo effetto castratore sugli uomini neri, ai quali vieta di diventare “veri” patriarchi, cioè “veri” dominanti. La sua sessualità è anche riportata alla sua fertilità: «la madre assistita [welfare mother] rappresenta una donna amorale, dalla sessualità sfrenata, entrambi fattori identificabili come causa della sua situazione precaria»[23].
Ciò che fa di questo matriarcato uno dei più mostruosi è che sintetizza le due facce opposte di una femminilità normativa: la mamma e la puttana. Come sottolinea perfettamente Patricia Hill Collins, la BBM [la Bad Black Mother[24]] è oggi una rappresentazione onnipresente dei discorsi razzisti e sessisti, largamente ripresa da figure emblematiche della cultura africana americana contemporanea. La BBM è una sintesi “mostruosa” come testimoniano i due significati principali della parola bitch con la quale è spesso chiamata, cioè con la quale le si dà realtà/materialità. Il termine bitch (o ho) indica prima di tutto una ragazza sessualmente insaziabile e intraprendente. Questa pretesa immoralità delle donne nere è una concezione residuale delle ideologie razziste, schiaviste e segregazioniste. Nelle piantagioni del Sud degli Stati Uniti, come nelle abitazioni delle colonie francesi tra l’altro, ha permesso di scagionare i Bianchi dagli stupri sistematici perpetuati sulle donne nere, in nome della lubricità o dell’immoralità di queste. Eppure, il termine bitch come viene promosso anche dal gangstarap[25] o persino dal rap “blingbling”[26], fa anche riferimento all’animalità, e paragona le donne nere a delle cagne, e i loro figli a una figliata. Questa rappresentazione insultante di BBM e bitch è estremamente infida perché fa scomparire lo stereotipo in quanto stereotipo. In altre parole, per essere riconosciuta nella propria femminilità “nera” – femminilità razzializzata che risponde alla femminilità dominante, razzializzata anch’essa, delle Bianche o delle borghesi – bisogna incarnarla totalmente.
Il mito del “matriarcato nero” funge infine da ideologia incapacitante, perché neutralizza deformandola tutto ciò che si apparenta un’affermazione delle donne nere[27]: l’autonomia e il potere sono terreno riservato agli uomini, impossessarsi di questi attributi tipicamente “maschili” implica necessariamente femminilizzazione degli uomini neri e virilizzazione delle donne nere. In altre parole, gli stereotipi che pesano sulle donne nere sono stereotipi che mettono in scena delle mutazioni di genere (donne che diventano uomini, uomini che diventano donne): l’imitazione di questi stereotipi, alla quale le donne nere sono costrette, funziona in modo complesso perché articola sessismo e razzismo. L’imitazione è prima quella delle norme del genere, ma queste norme sono rovesciate: le donne performano i tratti tipicamente maschili (potere economico, autorità sui bambini, indipendenza, iniziativa sessuale) mentre gli uomini sono effeminati (dipendenti, passivi, inattivi). Questa scena imitativa non può mai fare dimenticare di essere un’imitazione, non tanto per il suo essere esagerata quanto per la sua natura grottesca dovuta alle stesse mutazioni di genere, all’inversione dell’ordine sessuale.
Le norme della femminilità e della mascolinità hanno storicamente contribuito a generare stereotipi razzisti. La femminilità dominante, razzializzata, si è costruita intorno a un certo numero di tratti, intorno a un motivo ideologico (la moralità, la maternità, e, se non proprio la purezza e l’innocenza, perlomeno l’ignoranza della sessualità). È per questo motivo che diventerà una risorsa politica, una posta in gioco importante nel processo di emancipazione delle donne nere. Diventare libera, accedere all’uguaglianza, è anche diventare madre, cioè lottare per essere riconosciuta nel proprio ruolo di donna e di madre, di “buona madre”. «Le immagini e le istituzioni che descriviamo come sessiste hanno effetti sia sulle donne nere sia sulle donne bianche, ma gli effetti sono diversi a secondo del modo in cui una donna è colpita da altre forme di oppressione. Sarebbe infatti falso dire che tutte le donne sono oppresse dall’immagine della donna “femminile” così com’è comunemente descritta: onesta, delicata, bisognosa del sostegno e della protezione di un uomo»[28]. Questa rappresentazione ha potuto, storicamente, essere considerata desiderabile.
Si capisce quindi che le donne Africane Americane non abbiano partecipato in massa ai movimenti di donne degli anni Sessanta e Settanta negli Stati Uniti. Si spiega dall’indifferenza, per non dire razzismo, delle femministe bianche allora maggioritarie nel movimento, ma anche dal fatto che l’agenda politica del movimento sia stata quasi esclusivamente concentrata sulla condizione delle donne bianche eterosessuali delle classi medie e superiori, cioè su un’unica modalità, particolare, del dominio di genere. Le lotte per l’aborto libero e gratuito e contro gli stereotipi sessisti che associano femminilità e maternità, sessualità e riproduzione, sono state prioritarie per le donne bianche eterosessuali, ma per le donne non bianche alle quali storicamente è stato negato l’accesso alla maternità, o che sono state vittime di sterilizzazioni forzate? Il sessismo e il razzismo distorcono il mondo comune nel quale dobbiamo lottare: «Alcune preoccupazioni sono comuni a noi tutte donne, altre no. Avete paura che i vostri figli crescano e diventino complici del patriarcato, e vi rinneghino, noi abbiamo paura che qualcuno li tiri fuori da una macchina e li uccida con una pallottola in testa per strada, come temiamo che voi rifiutiate di vedere le cause di questi assassini»[29]. Anzi, come ce lo ricorda Michele Wallace, c’è chi, uomo o donna, ha sostenuto sempre nel nome del Matriarcato nero che le donne Africane Americane non avevano più bisogno del femminismo perché beneficiavano di privilegi di genere negati alle donne WASP[30].
Per via di questa svalutazione sistematica della maternità nera (matriarcato mostruoso, libidinoso, castratore, parassita) e dell’esclusione dai benefici sociali e simbolici della femminilità, la femminilità/maternità diventa una posta in gioco: per accedere al riconoscimento, bisogna smettere di performare questo stereotipo, e imitare – nel senso che ho definito prima – la norma dominante, una norma gendered e razzializzata. Bisogna imitare l’identità sessuale bianca per accedere ai suoi privilegi. Bisogna quindi rimettere il patriarcato a testa in su. E così, negli anni Sessanta e Settanta, i leader Neri hanno chiaramente rivendicato un’identità virile, promuovendo il loro ruolo di dominante all’interno del patriarcato: la virilità sessista – sul modello della società americana – era il segno innegabile del loro accesso all’uguaglianza (uguaglianza degli uomini tra di loro). Grandi figure femminili del movimento dei diritti civili hanno accettato di attenersi a una divisione sessuale estremamente tradizionale e conservatrice dei ruoli, come testimoniano le parole di questa militante: «Penso che la donna debba rimanere dietro l’uomo. L’uomo deve essere davanti, perché, in questo paese, la donna nera e stata storicamente sopra l’uomo nero. Anche se non è colpa loro, le donne nere hanno ottenuto migliori lavori, e status sociali migliori. Non sono arrivate all’uguaglianza con gli uomini bianchi, e nemmeno con le donne bianche, ma sono state sopra gli uomini neri. E adesso che la rivoluzione è socialmente in atto, penso che le donne nere non dovrebbero essere messe avanti, nella vita. Penso che dovrebbero esserlo gli uomini neri, perché sono gli uomini che rappresentano il simbolo della razza»[31]. Più generalmente, donne nere giovani, istruite, della classe media hanno idealizzato questa norma vittoriana della femminilità e hanno acconsentito, per la prima volta nella storia del movimento nero, a non lottare alla pari di fianco agli uomini neri. Come ricorda bellhooks: «Le donne nere di oggi che sostengono il dominio patriarcale hanno mantenuto “lo status quo” sulla questione della propria sottomissione, per tenere conto del contesto della politica razziale e hanno affermato che erano disposte ad accettare un ruolo subordinato nei loro rapporti con gli uomini neri, per il bene della razza»[32]. Di questo compromesso, storicamente, si è pagato un caro prezzo. Per bellhooks, come per tante femministe Africane Americane, tale configurazione dei rapporti di dominazione è un vero e proprio tranello politico.
Prolegomeni per pensare e agire nel contesto francese
Per molto tempo ci sono stati in Francia pochissimi studi sull’articolazione tra razzismo e sessismo[33]; e se dal punto di vista militante le lotte sono state portate avanti da anni su questi terreni, le problematiche sono sempre state periferiche. Dal 2003 le cose sono molto cambiate dopo quella che possiamo chiamare la “quarta faccenda del velo”[34], che ha sconvolto la Repubblica francese. Fino a quel punto, gli studi femministi francesi pensavano a sessismo e razzismo in una relazione di analogia (il “sesso” come la “razza” sono categorie politiche e non naturali); ormai, con l’influenza in particolare dei lavori anglofoni, si deve pensare alla loro articolazione.
In Francia, il concetto di “intersezionalità” di sessismo e razzismo sviluppato da KimberléCrenshaw[35] non è mai stato così ben illustrato come durante le numerose vicende della “faccenda del velo” nel 2003-2004. Le polemiche molto forti che scoppiarono intorno alla legge del 15 marzo 2004 che vietava «i segni che manifestano visibilmente l’appartenenza a una religione» testimoniano in particolare le tensioni esistenti tra lotte femministe e antirazziste. Le linee di separazione tra chi era a favore e chi era contrario a questa legge hanno provocato spesso situazioni estremamente problematiche, dove le argomentazioni femministe sono state utilizzate dalla retorica razzista e le argomentazioni antirazziste alimentavano la retorica sessista[36]. Christine Delphy riprende con precisione questa problematica dell’intersezionalità e denuncia ciò che lei chiama un “falso dilemma” tra antisessismo e antirazzismo. Sottolinea a ragione come una parte del femminismo pro-legge sia caduta nella trappola del proprio colonialismo, attribuendo una matrice culturale, per non dire razziale, al sessismo – lasciando pensare che le violenze fatte alle donne sarebbero il monopolio culturale degli uomini “delle banlieues” e di “quartieri popolari” vari, o addirittura un’importazione dai paesi “musulmani”, mentre il resto della società francese sarebbe miracolosamente diventata egualitaria. Per Delphy, il fatto stesso di concepire il sessismo “dei quartieri” come «violenza straordinaria»[37] ha avuto come conseguenza la riduzione delle “ragazze col velo” a semplici “vittime” eccezionali della violenza patriarcale – e l’altra faccia di questo discorso è stata il rinfacciare loro una certa accettazione, o anche complicità con la violenza dei “loro” uomini. [Così, il Collettivo Nazionale per il Diritto delle Donne (CNDF) non permise alle donne col velo di partecipare alle sue riunioni, o di manifestare assieme a loro. «Per le femministe, il velo non è solo IL simbolo della sottomissione delle donne: chi lo indossa, e chiunque si opponga alla sua esclusione dai luoghi pubblici, è indegno di partecipare alle lotte per i diritti delle donne», analizza Delphy. I termini del dibattito riprendono in modo identico il dibattito nel movimento femminista intorno alla prostituzione. Nel 2003, quando fu proposta la legge sulla sicurezza interna, una parte del movimento femminista non riusciva a considerare le prostitute altrimenti che rinchiuse in un’alternativa infernale: o erano le vittime assolute ed emblematiche del patriarcato, oppure erano delle traditrici della causa delle donne. Quindi ridare loro un potere di azione significava per forza armare delle nemiche del femminismo vendute agli uomini[38]]. Quest’analisi rimane essenziale in un contesto in cui la decolonizzazione del femminismo francese è un obbiettivo cruciale e quanto mai necessario, poiché una parte del movimento, volendo “svelare” le ragazze musulmane, non ha capito l’utilizzo elettorale che ne sarebbe stato fatto qualche mese dopo dalla destra. [Oggi, il discorso dell’uguaglianza tra uomini e donne si colloca all’interno della nascita di una retorica femminista culturalizzante ampiamente sfruttata dall’estrema destra. Nell’ultima campagna elettorale del Fronte Nazionale, nell’autunno del 2006, si potevano vedere per esempio manifesti con una giovane ragazza “beurette” (figlia o nipote d’immigrati dal Nord Africa, NdT) con i capelli sciolti, una maglietta corta, un pantalone a vita bassa, un piercing. Si tratta di una figura femminile “assimilata”, implicitamente opposta a quella della “ragazza col velo”, come se l’uguaglianza dei sessi e la libertà delle donne fossero una caratteristica di civilizzazione «dell’occidente», della Francia di «tradizione cristiana»[39]].
Nel 2006, in un’intervista rilasciata alla rivista «NouvellesQuestionsFéministes», HouriaBoutelja, figura del “Movimento degli indigeni della Repubblica” e dell’associazione femminista delle “Blédardes” (il primo è un movimento di intellettuali e attivisti discendenti dalle migrazioni forzate dalle colonie, la seconda un’associazione di donne che ne è vicina) spiegava perché «il velo è un’affermazione di lealtà»[40] verso gli uomini arabi e viceversa un messaggio ai dominanti, “agli uomini bianchi”: “Non ci avrete!”[41].
Questo messaggio è indirizzato ai protagonisti attuali del dibattito, ma anche alle generazioni passate. Secondo me, quattro generazioni di donne sono ricordate e richiamate; quattro generazioni incarnate da quattro figure stereotipate della femminilità indigena: la “prostituta orientale”, la “fatma analfabeta”, la “beurette integrata”, la “ragazza col velo indottrinata”[42]. La prima è la donna araba sovraerotizzata, bella donna orientale velata, che svela le sue grazie ai militari francesi sulle cartoline diffuse in tutto il paese, definendo per decenni i tratti di una femminilità indigena, ripresa dalla femminilità razzializzata della schiava, selvaggia e libidinosa, delle colonie di coltivazione della canna da zucchero. La donna orientale è stata uno degli strumenti più longevi e più efficaci per umiliare e rendere inferiori i colonizzati, per svirilizzare gli algerini. Più le immagini delle donne orientali diventano pornografiche, più il messaggio delle autorità francesi colpisce l’onore degli uomini arabi: «Non sapete occuparvi delle vostre donne, e noi dobbiamo soddisfarle»[43].
La seconda figura è quasi asessuata, o comunque “de-erotizzata”, resa invisibile nella Francia degli anni Sessanta e Settanta, nel periodo della forte immigrazione dai paesi arabi: la “fatma analfabeta”. La moglie sottomessa, a malapena tollerata, permette di definire “diversi” i lavoratori immigrati, di essenzializzarli in valori opposti alla Francia della liberazione sessuale, di collocarli in una modernità diversa, “orientalizzata” a oltranza, barbarizzata, anche se centotrentadue anni di colonizzazione francese in Algeria l’hanno resa comune e condivisa. Ritroviamo qui una figura femminile la cui sessualità è collocata interamente nella fertilità: è l’equivalente della welfare mother, figura utilizzata come spauracchio dal liberismo alla francese che vuole distruggere lo stato sociale.
La terza è la “beurette”: modello d’integrazione, è sistematicamente data come esempio e contrapposta a suo fratello (il “beur”, presto chiamato “ragazzo arabo”) che non va bene a scuola, non rispetta l’autorità, “gironzola” nelle banlieues, nelle scale delle torri popolari; si ribella contro la madre e la famiglia, considerata “arcaica”. Un’intera generazione sarà rinchiusa in ingiunzioni contraddittorie: deve cavarsela, ma senza rinnegare le proprie origini, senza tradire[44].
Infine, oggi, la figura della “ragazza col velo” per forza “indottrinata”, è la sorella minore della “beurette” di qualche anno fa. Di fronte a questa figura ipermediatizzata e senza parola propria, il femminismo delle ragazze col velo in mobilitazione è di fatto una risposta politica dei subalterni agli stereotipi coloniali e postcoloniali. Però, con tutta la solidarietà politica che ho per loro, il rischio di rimanere intrappolate nelle reti dell’imitazione coloniale, descritte da Fanon e Bhabha, è grande. In un appello uscito nel gennaio del 2007 le “Femministe Indigene” dichiarano: «non saremo mai più il cavallo di Troia della supremazia bianca o le traditrici dell’ordine della comunità»[45]. Quest’appello è l’espressione stessa di un’ingiunzione alla moralità delle ragazze e alla virilità dei ragazzi, discendenti di migranti di ex-colonie: come se l’identità sessuale fosse al centro del processo di soggettivazione politica. La femminilità rivendicata dalle giovani femministe musulmane militanti è una risposta nel presente alla passata persecuzione delle nostre madri colonizzate, stigmatizzate come donne immorali, lascive, e sottomesse. Tuttavia, è una risposta che rimane intrappolata nella dialettica del sapere e del potere coloniale: la “ragazza col velo” performa una femminilità tradizionale, vergine, pia, ed effettivamente potente (come tutte le figure femminili eroiche, vergini guerriere o amazzoni); una femminilità estremamente “occidentale”, checché ne dicano le Indigene, poiché un’unica e simile modernità lega le due sponde del Mediterraneo. Come le donne del Black Panthers Party che hanno accettato una divisione conservatrice dei ruoli, accettando la vita cosy e middle class promossa dalla società americana affinché i loro uomini possano recuperare il proprio orgoglio maschile e la propria capacità di azione di militanti, le firmatarie dell’appello delle “Femministe Indigene” fanno propria non solo una situazione complessa di dominazione, ma anche la politica del sospetto che storicamente è servita a dividere, tramite l’arma del sessismo, i popoli colonizzati. Dichiarare piena lealtà ai “nostri uomini”, dare garanzie e render conto sulla nostra sessualità, significa accettare (ovviamente non nelle stesse proporzioni) l’insieme degli stereotipi coloniali – riconoscere che come ieri siamo responsabili della loro persecuzione (“traditrici”), siamo il punto debole della lotta antirazzista, donne “naturalmente” immorali, bestiali, che bisogna “controllare”, “civilizzare” – e non fa differenza che si faccia con le norme astoriche e antagoniste dell’occidente o quelle dell’oriente. II tutto finisce con l’accettare di fatto una norma di femminilità dominante, eterosessista e borghese, che pure denunciamo. Rigettare insieme le “femministe occidentali” e il patriarcato, accettando allo stesso tempo un discorso che promuove il controllo dei nostri corpi e la moralità delle nostre vite in nome della lotta contro il razzismo, contribuisce appunto a reiterare norme razziste. Infine, in questo gioco perverso di performance e contro-performance, ci produciamo come soggetto politico, ma soggetto che identifica la resistenza con l’onore maschile ritrovato, la virilità, quindi soggetto esclusivamente uomo, ed eterosessuale. Finché l’identità sessuale (di genere e di sessualità) dominante rimarrà al centro del processo di soggettivazione politica, finché sarà in quanto tale una posta in gioco della lotta, la virilità e la femminilità eteronormative saranno “maschere bianche”, mimiche sessiste che un rapporto di forza razzista ci obbliga a recitare per assicurarsi la continuità. Siamo noi in grado di svelare queste maschere, non per ritrovare un’autenticità pretesa, ma per costruire una personalità femminista decolonizzata, efficacemente sovversiva contro un sessismo e un razzismo tra i più violenti che ci siano? «I vecchi schemi, pur rearrangiati con astuzia per creare l’illusione del progresso, ci condannano sempre a rimuginare, con maschere nuove, gli stessi dibattiti logorati, gli stessi sensi di colpa, lo stesso odio, le stesse recriminazioni, lamentazioni e la stessa diffidenza. Le strutture passate dell’oppressione, le vecchie ricette di cambiamento, sono ancorate dentro di noi, ecco perché dobbiamo allo stesso tempo rivoluzionare queste strutture e trasformare le nostre condizioni di vita, a loro volta modellate da queste strutture»[46].
note
Controstorie, come lascia intendere il titolo stesso della rivista, voleva raccontare le storie taciute.
Il collettivo che aveva prodotto i due numeri di questa fugace rivista era composto da persone che si definivano rivoluzionarie, attive sia nel gruppo politico diventato da poco “Sinistra critica” lasciando Rifondazione, sia in collettivi femministi, ma anche nel movimento queer già attivo a Roma e Napoli. Due di noi erano francesi. Allora ci sembrava che forse di queer, performatività si parlasse più a Roma che a Parigi – e infatti Butler è stata tradotta molto prima in italiano che in francese. E che si facesse di più: workshop di drag king e squirting, Preciado alla Casa internazionale delle donne, il ciclo di seminari Queer it yourself, Weird festival, Porn to be alive… giusto per condividere le prime cose che ci tornano in mente di quegli anni tra quelle a cui abbiamo partecipato. In Francia, ci sembrava che la questione centrale fosse l’articolazione razzismo/sessismo dell’islamofobia sempre più evidente dello stato, da quando una legge del 2003 aveva vietato l’uso del velo alle alunne delle scuole medie e superiori, escludendo di fatto schiere di ragazze mussulmane dalla scuola pubblica e scatenando nel movimento femminista e nella sinistra un dibattito feroce e numerose divisioni, tutt’ora in atto. La copertina del numero uno della rivista annunciava: Controstorie “Razzismo_genere_classe”. Ci pare volessimo parlare di sessismo e razzismo con la sinistra, di razzismo e classe con i movimenti queer e femministi, e dell’articolazione delle tre cose con un po’ tutt*. Il testo di Dorlin ci sembrò perfetto, anche se complesso – leggendolo pensammo anche che spiegava en passant la performatività di Butler meglio che tanti saggi letti fino a lì.
Siccome non era stato mai tradotto, decidemmo di farlo noi.
L’operazione di rendere Dorlin in italiano non aspirava a essere una traduzione scientifico letteraria, ma era piuttosto animata dal desiderio di mettere in condivisione degli strumenti che ritenevamo utili per il dibattito politico, in quel momento e i tempi che ci preparavamo ad affrontare. Utile anche perché il piano della riflessione più sofisticata investiva in modo immediato il piano delle pratiche, mostrando anche delle possibilità; la traduzione doveva tenerne conto, e grazie a diverse revisioni e qualche rimaneggiamento, si scostava quel tanto che ne permettesse la leggibilità in un altro contesto. A dodici anni dalla pubblicazione di controstorie, raccogliamo l’invito a pubblicare questa traduzione come se fosse una fotografia di quel tempo, perché intanto sia in Francia che in Italia sono successe cose, ma soprattutto sono cresciuti movimenti che hanno prodotto la lingua per narrare altre storie. Non sappiamo se e come Dorlin riscriverebbe quel testo oggi, forse anche noi faremmo altre scelte nella traduzione, ma a oggi ci sembra più onesto che sia chi voglia leggerlo per usarlo, che provi a riempire i buchi, affilando lo strumento in modo che sia più utile possibile per i tempi che attraversiamo.
La versione originale, “« Performe ton genre : Performe ta race ! » Repenser l’articulation entre sexisme et racisme à l’ère de la postcolonie” è stata ripubblicata nel 2010* ma senza la parte finale, quella sulla situazione francese ed è in accesso libero qui: https://books.openedition.org/iheid/5888?lang=fr. Il testo completo era sul sito sophia.be, ma non è più disponibile.
*in Christine Verschuur, Genre, postcolonialisme et diversité de mouvements de femmes, Genève, Cahiers Genre et Développement, n°7, Genève, Paris : EFI/AFED, L’Harmattan, 2010, pp. 227-237
[1]Judith Butler, Troubledansle genre, 1990, Paris, Ladécouverte, 2005, p.248. Tuttele citazioni sono tratte dall’edizione francese.
[2]Ibid., p. 259.
[3](Un enunciato “performativo” è un discorso che crea ciòche enuncia, come quello delsindaco “vi dichiaro marito e
moglie” NdT.) John L. Austin,Quand dire, c’est faire, Paris,Seuil, 1991. Si veda anche lalettura che ne fa PierreBourdieu, Langage et pouvoirsymbolique, Paris, Seuil, pp.189-190.
[4]Judith Butler, Troubledansle genre, op. cit., p. 264.
[5]Nota inserita nel testo.
[6]Judith Butler, BodiesThatMatter, New York, Routledge,1993, p. 223, trad. it., Corpiche contano, Feltrinelli, 1996.
[7]FrantzFanon, Pelle nera,maschere bianche, e I dannatidella terra. Ma ispirandosi anche a KarlMarx, Il 18 brumaio: «Hegel fada qualche parte questa osservazione che tutti i grandi eventi e personaggi storici si riproducono in qualche modo duevolte. Si è dimenticato diaggiungere: la prima voltacome tragedia, la secondacome farsa», Karl Marx, Le 18brumaire de Louis Bonaparte,1852, Paris, Mille et une nuits(Editionssociales 1969), 1997, p. 13.
[8]HomiBhabha, TheLocation of Culture, 1994,New York, Routledge, 2005, p.122; trad. it. I luoghi della cultura, Meltemi, 2001.
[9]È l’uomo dell’invidia, l’uomocolonizzato dei Dannati della terra:«Sogni di possessione. Tutti modidi possessione: sedersi al tavolo delcolono, sdraiarsi sul letto del colono, magari con la moglie. Il colonizzato è un invidioso. Il colono losa, lui che sorprendendo il suosguardo alla deriva, constata amaramente ma sempre allerta:“Vogliono prendere il nostroposto”», FrantzFanon, LesDamnésde la terre, 1961, Paris, LaDécouverte, 2002, p. 43.
[10]FrantzFanon, Peaunoire,masquesblancs, cit., p. 51.
[11]«II Nero vuole essere Bianco.Il Bianco si accanisce a realizzareuna condizione di uomo», ivi, p.9.
[12]HomiBhabha, The Location ofCulture, cit., p. 123.
[13] Ibidem.
[14]FrantzFanon, Peaunoire,masquesblancs, cit., pp. 92-93.
[15] Ivi, p. 98.
[16]FrantzFanon, LesDamnés dela terre, cit., p. 210. Sottolineoio.
[17]«Infatti, la négritude apparecome il tempo debole di una progressione dialettica: l’affermazioneteorica e pratica della superioritàdel Bianco è la tesi; la posizionedella négritude come valore antitetico è il momento della negatività.Ma quel momento negativo nonbasta di per sé e i Neri che nefanno uso lo sanno molto bene;sanno che mira a preparare la sintesi o la realizzazione dell’umano inuna società senza razze», Jean-PaulSartre, Orphée Noir,préface à l’Anthologie de la poésienègre et malgache, citato da Fanon,Peaunoire, masquesblancs,cit., pp. 107-108.
[18]Allo stesso modo e secondolo stesso ragionamento, la “cultura degli immigrati” può essere daloro pensata come conforme aquella del paese natale. Permettedi mantenere il legame tra qui elà. Ma è molto più rigida o immobile e quindi tradizionale dellacultura del paese di origine, è ferma allo stato della culturaal momento della partenza, mentre quella cultura ha continuato a “vivere”. È anche inedita perchénuova versione di questa cultura,ricostituita, rimodellata. Si vedaAbdelmalekSayad, L’immigrationoulesparadoxes de l’altérité,1991, Paris, Raisons d’agir, 2006.
[19]E qui che si posiziona laretorica del razzismo senza razza,del “razzismo culturalista”. Suquesto punto, vd. EtienneBalibar, Immanuel Wallerstein,Race, nation, classe, Paris, LaDécouverte, 1988.
[20]Si veda il famoso rapporto diDaniel Patrick Moynihan, professore ad Harvard, intellettuale liberista che lavorò per le amministrazioni Kennedy e Johnson, pubblicato nel 1965: The Negro Family: The Case For National Action. Moynihan divenne poi uno dei rappresentanti più influenti deineoconservatori e il braccio destrodi Nixon sulle questioni sociali.
[21]«II negro, lui, è castrato. Ilpene, simbolo della virilità, èannientato, il che vuol dire che ènegato», Peaunoire, masquesblancs, cit., p. 133. Si ritrovano considerazioni simili nei testidi F. Douglass o di W.E.B.Dubois in particolare. Per uncommento, si veda Myriam Paris,Elsa Dorlin, Genre, esclavage etracisme: la fabrication de la virilite, cit. Questo processo dieffemminazione va di pari passocon il “mito dello stupratorenero”, si veda Angela Davis, Donne, razza e classe, ed Alegre, Roma, 2018. Traduzione: Marie Moïse, Alberto Prunetti.
[22]Si veda Dean E. Robinson,The Black Family and USSocial Policy: Moynihan’sUnintendedLegacy?, «Revuefrançaise d’étudesaméricaines»,n. 97, 2003, pp. 1I8-128.
[23]Patricia Hill Collins, BlackFeministThought, New York,Routledge, 2000, p. 84. Altri stereotipi sono: la “mammy”, la“jezabel”, l’adolescente svergognata, la “hoochie” (la ragazza“calda” dei clip gangsta rap)…
[24]Nota inserita nel testo.
[25] Si veda la polemica attornoai testi del gruppo 2 Live Crewnegli Stati Uniti e la risposta diQueen Latifah nel 1990. InFrancia, numerosi gruppi sono ailimiti in materia di rappresentazioni, posizioni o discorsi sessisticome testimoniano i richiamiall’ordine di alcune rapper comeBams.
[26] È il rap “sbrillucicante”, depolicizzato – possibilmente compiacente nei confronti del consumismo o degli ideali neoconservatori –, che ha mantenuto solo le forme e le apparenze del gangasta senza il radicalismo e la rabbia. In Francia, è rappresentato da Booba o Doc Gynéco.
[27]È il “blackwomenstandpoint” di Hill Collins: l’idea è di mostrare che fu da quest’esperienza particolare di intersezione tra razzismo e sessismo che le donne nere hanno potuto sviluppare il loro potere e la loro autonomia.
[28]Elisabeth V. Spelman, Inessential Woman, Boston, Beacon Press, 1988, p. 122.
[29]Audre Lorde, Sister Outsider, Genève, EditionsMamamélis, 2003, p. 131.
[30] Michele Wallace, Black Macho & the Myth of Superwoman, London, John Calder, 1978.
[31] In Inez Smith Reid, Together Black Women, 1972, citato da bellhooks, Ain’t I a Woman, Boston, South End Press, 1981, p. 182.
[32] Ivi, pp. 183-184.
[33] Fatta eccezione per le ricerche di Colette Guillaumin, si possono citare i lavori di Rita Thalmann, di Claude Lesselier, o di Arlette Gautier.
[34] La prima si tiene nel 1958 ad Algeri (le autorità francesi orchestrano una cerimonia di svelamento delle donne musulmane), la seconda nel 1989, la terza nel 1994.
[35]Kimberlé W. Crenshaw, Cartographiesdesmarges: intersectionnalité, politique de l’identité et violencecontreles femmes de couleur, «Cahiers dugenre», n.39, 2005.
[36] Legge che lotta contro il patriarcato intrinseco nelle religioni in generale, e nell’Islam in particolare, e allo stesso tempo legge liberticida, neocolonialista e razzista. Su tutti questi argomenti si può rimandare a Charlotte Nordman (dir.), Le Foulard islamique en question, Paris, Editions Amsterdam, 2004; i molti numeri della rivista «Prochoix» consacrati alla questione tra il 2002 e il 2006; Christine Delphy, Antisexismeouantiracisme? Un fauxdilemme, «NouvellesQuestionsFéministes», n. 1, 2006; FrançoiseGaspard, Le Foulard de la dispute, «Le Cahiers dugenre», Hors séries, 2006.
[37]Christine Delphy, Antisexismeouantiracisme? Un fauxdilemme, cit., p. 68.
[38] Nota inserita nel testo.
[39]Su questa politicizzazione incorciate delle questioni sessuali e razziali, si veda Eric Fassin, Questionssexuelles, questionsraciales. Paralléles, tensions et articulations, in E. Fassin, D. Fassin, De la question sociale à la questionraciale, Paris, La Découverte, 2006, p. 239 e seguenti.
[40]EntretienavecHouriaBoutelja, On vous a tantaimé-e-s, «NouvellesQuestionsFéministes», cit., p. 128.
[41] Ivi, p. 133.
[42] L’elaborazione di questi quattro stereotipi segue il metodo sviluppato da Patricia Hill Collins. Si veda Elsa Dorlin, Corpscontre nature: stratégiesactuelles de la critiqueféministe, «L’Homme et la société», n.151/151, 2003-2004. Su queste rappresentazioni, si rimanda i lavori di KarimaRamdani, in particolare Construction desidentités de genre de la colonisationou post-colonialisme: représentations de la femme musulmane, tesi di laurea in scienze politiche sotto la direzione di E. Dorlin, Université Paris VIII, 2004-2005, in corso di pubblicazione dall’Harmattan.
[43] Processo già perfettamente studiato a proposito della virilità cavalleresca dei Britannici in India. Si veda MrinaliniSinha, ColonialMasculinity: The ManlyEnglishman and the Effeminate Bengali in the Late Nineteeth Century, Manchester University Press, 1995; stessa cosa in Indocina, come testimoniato dai lavori maggiori di Ann Laura Stoler e Anne McClintock. Per una presentazione di questi lavori, Elsa Dorlin, De l’usageépistémologique et politiquedescatégories de sexe et de race danslesétudessur le genre, «Cahiers dugenre», n. 39, 2005.
[44] Si veda il notevole lavoro di NaciraGuénifSouilamas, LesBeurettes, Paris, Grasset, 2000.
[45]“Appel desféministesindigènes”, 26 janvier 2007, http://bellaciao.org/fr/article.php3?id_article=41759.
[46]Fanon?