6 agosto 2020
Il ricorrere della quindicesima edizione di Short Theatre ha fatto sorgere il desiderio di riunire alcuni sguardi intorno al corpo del festival, diffuso nel tempo e nello spazio della città. Ne è nata una conversazione a quattro voci, che vuole essere un primo passo verso la ri-costruzione di un archivio di Short Theatre, a sua volta corpo vivo e multiforme, in continuo movimento nei pensieri e nei gesti delle persone che lo hanno attraversato fino a ora.
A prendere parola: Attilio Scarpellini, autore e critico, Piersandra Di Matteo, studiosa, dramaturg e curatrice, Fabrizio Arcuri, regista e co-direttore di Short Theatre, Francesca Corona, curatrice e co-direttrice di Short Theatre.
Attilio Scarpellini: Forse è il caso di cominciare dall’inizio. Non per fare bilanci, che è un’attività tipica del Capitale, ma per cominciare a storicizzare qualche questione. Short Theatre nasce nel 2006 come rassegna, e non come festival, preceduta da un aggettivo inglese che vuol dire “breve”, “corto”, che al di là del formato, sembra alludere a una dimensione minore di spettacolarità e anche a uno stato di frammentazione del pubblico, a uno spettatore individualizzato e un po’ divagante simile a quello descritto da Paolo Ruffini e Stefania Chinzari nel loro Nuova Scena Italiana, un libro che si affacciava sugli anni zero ma che veniva dagli anni novanta. È una rassegna di percorsi e di processi, più che di spettacoli, che esce dai limiti della scena istituzionale per vivere e abitare lo spazio del teatro India che, già all’epoca, costituisce un luogo elettivo per tutto un vasto movimento teatrale. Alle spalle ha una compagnia, Accademia degli Artefatti, che proprio un anno prima ha sottoposto la sua poetica a una svolta radicale – segnata dalla spoglia messinscena dei Tre pezzi facili di Martin Crimp – e nel contempo un’area artistica plurale, Area06, che non a caso è stata il principale soggetto dell’occupazione di India dopo la “cacciata” di Mario Martone che di quello spazio era, è, a tutti gli effetti il fondatore. Vogliamo partire da questi dati per capire che cosa avviene nel tempo di queste premesse? Fabrizio?
Fabrizio Arcuri: Effettivamente all’inizio Short Theatre aveva la r di Short cerchiata per segnalare anche un altro significato, che era shoot, un verbo che in inglese significa “sparare” (ma anche “scattare una fotografia”), l’idea di un teatro “sparato” si agganciava soprattutto alla drammaturgia contemporanea inglese, che in quegli anni prendeva forma attraverso testi estremamente puntuali rispetto a ciò che stava accadendo nella realtà e per questo veniva chiamata shoot theatre. Gli accadimenti si moltiplicavano e subito se ne facevano delle traduzioni drammaturgiche. La spinta, lo stimolo iniziale, dunque, è stato di porre l’accento sulla drammaturgia contemporanea perché sentivamo l’esigenza di staccarci da un’idea tradizionale di repertorio e di cominciare ad avvicinare il pubblico su un terreno di prossimità, non solo fisica ma tematica, chiudendo l’era delle riletture, dei tagli e delle riscritture di opere più o meno classiche. Complice il Blue Cheese, il Rialto Santambrogio e, appunto, Area06 in tutta la sua compagine dell’epoca: Roberto Latini con “Fortebraccio Teatro”, Ascanio Celestini con “Fabbrica”, Caterina Inesi di “Travi Rovesce” e Alessandra Sini di “Sistemi dinamici altamente instabili”, PAV, cioè Roberta Scaglione e Claudia Di Giacomo, e “Quelli che restano”, il gruppo di Werner Waas e Fabrizio Parenti. Decidemmo di fare questa azione proprio il giorno in cui Albertazzi debuttava al Colosseo con Giulio Cesare. La chiamammo Nerone: occupammo il Teatro India chiedendo all’assessore Borgna e al dirigente del dipartimento dell’epoca, che era Giovanna Marinelli, una conferenza stampa per stabilire quali potessero essere le sorti di quello spazio. Non volevamo in alcun modo appropriarcene, entrarci dentro e fare noi una programmazione, chiedevamo semplicemente che fosse restituito alla città…
A.S.: è stato un po’ il problema e l’assillo di tutte le amministrazioni, più o meno fino a tempi recenti, questo continuo tentativo di sottrarre il teatro India all’impulso che l’aveva fatto nascere, di sottrarlo e di normalizzarlo con una continua sottovalutazione, svalutazione e diminuzione della capacità creativa di questo spazio, ridotto, per usare le parole di un ex direttore del Teatro di Roma, a un “palcoscenico di serie B”.
F.A.: Sì, India è sempre stato visto come un luogo poco adatto al pubblico borghese dello stabile romano e dai direttori che si succedevano, Albertazzi, Lavia… C’era il ghiaino e i tacchi delle signore rischiavano di rompersi, le sedie erano scomode, tutta una serie di caratteristiche “inadeguate” lo facevano vedere quasi come il figlio piccolo e menomato della grande struttura…Siamo dovuti arrivare a questa direzione per vedere di nuovo il Teatro India abitato per quello che è e non più considerato come un fratello minore da nascondere e da usare per iniziative secondarie e trascurabili.
Piersandra Di Matteo: in questo senso diventa interessante capire quali erano le caratteristiche di questo luogo che meritavano invece un investimento ideativo, progettuale e abitativo. Questo figlio minore non era adatto al “grande” spettacolo. Ma quali erano invece le caratteristiche che potevano costituire le basi per immaginare un altro spazio, un altro teatro e, di conseguenza, un altro pubblico e un’altra città? Insomma, quali sono stati i pensieri che hanno animato le prime traiettorie curatoriali ideate a partire dalle caratteristiche del luogo stesso?
F.A.: Il Teatro India è una sorta di grande piazza circondata da mura, di fatto è proprio una cittadella e, sostanzialmente, la sua caratteristica più interessante e più importante sta è proprio nella sua capacità di riunire una sorta di comunità che può frequentare quello spazio in una maniera intensa, India ha quella caratteristica essenziale dei luoghi che sono luoghi dello stare, dell’incontro e del confronto, di un modo diverso di partecipare all’esperienza teatrale, che non si limita alla visione di uno spettacolo ma si estende a tutto quello che ci può essere intorno. Quando riuscimmo a ottenere dal Teatro di Roma che producesse la prima edizione di Short Theatre, pensavamo che la cosa più importante fosse proprio restituire a quello spazio queste caratteristiche e farlo vivere agli spettatori, ai cittadini, alle persone in un modo diverso. D’altronde anche Martone si era speso molto in quell’anno e mezzo di direzione del Teatro di Roma per far vivere quello spazio in una maniera alternativa, spingendosi fino al punto di inscenare l’Edipo a Colono, la sua maggior produzione con lo stabile capitolino, al Teatro India, occupandone tutti gli spazi, a cominciare da quelli esterni.
A.S.: Insomma, Short è stato la proiezione di un desiderio rispetto al teatro India che è stato sempre molto chiaro alla comunità teatrale romana, mentre è sempre risultato opaco agli amministratori politici e ai dirigenti delle istituzioni teatrali della città. Come si spiega questa prolungata mancanza di volontà politica, questa vera e propria noluntas, nello stabilizzare uno spazio per il contemporaneo in una città come Roma di cui le alterne vicende del Teatro India sono lo specchio?
F.A.: È tutt’altro che inspiegabile o sconcertante. India è un luogo che ha bisogno di un’idea, di un pensiero, e in questo senso non rientra nello standard dei teatri stabili e dei circuiti della stabilità. All’inizio era abbastanza un unicum, poi nel corso degli anni anche gli altri teatri stabili italiani si sono dotati di un taglio più piccolo.
Francesca Corona: dopo la direzione di Martone, Short Theatre è stata una prima risposta, la prima conversazione reale con quel luogo. India, se si dipana il filo della sua identità, rivela una vocazione immediatamente destituente del potere centrale, ed è proprio questa la cosa che, per così dire, non si è mai voluta, l’oggetto di quella noluntas di cui parla Attilio: il fatto che quel luogo per com’è fatto chiama, quasi grida, alla coabitazione, alla frequentazione, alla socialità, ed è per questo che diventa scomodo appena accetti di assecondarne l’indole. Credo che Short Theatre, – mi sento di poterlo dire proprio perché non ero nella parte ideativa del Festival all’inizio – abbia reso giustizia a questa possibilità, diventando quello di cui il contesto cittadino aveva disperatamente bisogno: una cinghia di trasmissione tra l’underground e tutto quello che si muoveva negli spazi informali, da una parte, e l’istituzione dall’altra.
A.S.: Short e il Teatro India, in fondo, rispondevano in maniera abbastanza lineare a quella vocazione artistica di Roma che ha sempre puntato a una creatività diffusa e non centralizzata dall’istituzione pubblica: Roma non è mai stata, come Milano, la città del teatro di regia e del teatro pubblico nel senso di Grassi e Strehler, così come, nel campo delle arti visive, si muoveva in una direzione molto diversa, più plurale e meno organizzata, dal mainstream dell’arte contemporanea: era la città della scuola di Piazza del Popolo, della pop art in versione italica, in cui sbarcavano gli artisti di Fluxus e non quelli dell’espressionismo astratto, la città di geni singolari come De Dominicis, di gallerie come l’Attico o la Tartaruga, che del resto intrattenevano legami stretti e profondi con il teatro delle cosiddette cantine. Città segreta, per più di un verso, dove Kantor debuttava con i suoi primi spettacoli in Italia ma non in un teatro, bensì nei sotterranei della GNAM di Palma Bucarelli. Tutto ciò, insomma, di cui Renato Nicolini avrebbe fatto la sintesi nei tempi in cui le Estati romane diventarono un modello culturale per la politica del ministro della cultura di Mitterrand Jack Lang….
F.C.: Certo, è come dire che quella è la nostra tradizione. Nel momento in cui tu tracci un filo del discorso e lo tieni vivo attraverso le esperienze è chiaro che la linea della tradizione è quella, non un’altra. Ma una certa critica ha fatto finta che questo modo di fare teatro, di stare a teatro e di sconfinare dai suoi limiti, sia “antiteatrale” come se non ci fossero stati anche loro, al Beat 72 o a vedere spettacoli in piazza.Si disconoscono le analogie, le affinità che ci sono nell’intento politico di rimettere la cittadinanza al centro dei processi artistici. Poi, chiaramente, le cose prendono la forma del tempo che vivono. Gli attuali tentativi di marginalizzare spazi come India e quel che in essi accade, ad esempio, mi sembrano i prodotti di una malattia molto diffusa nella nostra società, quella che consiste nel creare continue controparti dialettiche, mettendo le generazioni una contro l’altra. C’è una tendenza del Capitale a cavalcare il conflitto tra padri e figli per promuovere un’idea di rivolta che in realtà è funzionale alla restaurazione della norma, a sostituire i veri conflitti con degli pseudo-conflitti che cercano di disinnescarne la potenza e di smorzarne la carica di dissenso.
P.D.M.: Vorrei fare ancora una piccola nota rispetto a quegli anni, perché stiamo parlando degli anni 70 che non furono soltanto anni di apertura, di scene alternative, dell’invasione del palco di Castel Porziano. Furono anche gli anni della deriva terroristica. La paura di stare nello spazio urbano, di occupare le strade, di essere insieme nello spazio pubblico è un dato di fatto che non va dimenticato. Quindi, come suggerisce anche Francesca, si tratta di capire quali sono i punti di convergenza rispetto a certe pratiche che stiamo cercando di mettere in campo oggi e con quello che diceva prima Fabrizio, su questo shift fondamentale per cui chi progetta con una certa attitudine è interessato a scoprire uno spettatore cittadino, uno spettatore che ha un desiderio di partecipazione attiva e anche di partecipazione integrale all’evento teatrale, che non si esaurisce più con la presentazione del lavoro ma implica una processualità complessa che va da quando si esce di casa e si incontra il vicino o si aspetta insieme, tutto quel dispositivo, insomma, che in qualche modo India riusciva e riesce a fomentare.
F.C.: Se ci teniamo su questa traccia dei luoghi credo che un nodo fondamentale sia la trasmigrazione di Short Theatre dal Teatro India, quello spostamento del centro che è avvenuto in maniera molto graduale tra India e la Pelanda e il Mattatoio. Su questo punto, io e Fabrizio abbiamo sempre concordato: quello spostamento ha costituito uno snodo, ci ha messo ancor più di prima in ascolto dei luoghi e di quello che questi luoghi, e i contesti che li circondano, chiedono. Lo spostamento sul Mattatoio è avvenuto nel 2010 e per un paio di anni ha visto Short Theatre dividersi esattamente a metà, una settimana a India e una settimana al Mattatoio, per poi trovare il suo centro qui al Mattatoio pur lasciando sempre accesa la relazione con il Teatro di Roma. Nel frattempo, anche Roma stava cambiando. Utilizzare, quindi, il Mattatoio, trasformandolo in un luogo di spettacolo dal vivo con tutte le amicizie con le altre arti, significava migrare in luoghi che uscivano dalla mappa degli spazi comunque “delegati” allo spettacolo dal vivo. Stiamo parlando dell’altro lato del fiume rispetto a India, di un luogo ubicato nello stesso quadrante cittadino ma che esprime una relazione con il quartiere completamente diversa. India rientra nei posti “selvatici”, mentre il Mattatoio è uno dei simboli di Roma ed è considerato da tutti come una piazza, la stessa parola che ha usato Fabrizio per descrivere India.
A.S.: Dunque possiamo dire che c’è un genius loci di Short Theatre?
F.A.: Creare quello che chiami un genius loci è proprio la spinta maggiore che ha sempre animato Short Theatre. Naturalmente Short Theatre ha cambiato nel corso del tempo orizzonte per ovvi motivi, ma ha sempre cercato di dialogare con la città, con le sue assenze e con i suoi vuoti. Ha sempre cercato di colmare un vuoto, non in maniera coercitiva ma rilanciando in modo ideativo e progettuale. Cercando di riempire un vuoto costruendo dalle fondamenta una relazione con una nuova spettacolarità e un nuovo modo di rapportarsi agli artisti e ai loro processi creativi. Soprattutto nelle prime edizioni, c’erano artisti che invitavano altri artisti, c’era una volontà di concedere all’artista lo spazio, il tempo e la necessità che effettivamente gli servivano, esercitando una comprensione intima e profonda di cosa significava farki. E quindi stando sempre dalla loro parte, perché li si comprendeva intimamente.
P.D.M.: Mi sembra di aver potuto osservare anche da lontano che Short avesse la capacità di creare alleanze tra gli artisti, di creare una comunità di artisti che si riconoscevamo dentro un discorso comune. Questa possibilità di riconoscersi insieme mi è sempre parsa un dato evidente…
F.C.: Questa comunità che compone e componeva Short Theatre è anche frutto di una stratificazione di responsabilità e di desideri. La possibilità di far emergere il lavoro di un artista romano all’interno dello stesso paesaggio in cui si muovono artisti internazionali e artisti di generazioni diverse, tutti chiamati a coabitare nello stesso spazio. Questo sforzo e questa intenzione non puntano a omologare le diversità all’interno di uno stesso cappello, le chiamano ad appoggiarsi una con l’altra nello stesso panorama, a inserirsi e a formarne lo sguardo con le proprie differenze.
La presenza a Short di artisti più riconosciuti a livello internazionale ha spesso innescato delle parentele inedite che facevano emergere questioni e aiutavano a rileggere lavori in apparenza iper-locali. Short ha portato all’interno di una città caotica e sfaccettata, dispersiva e segreta quale è Roma, la possibilità di immaginare il mondo come lo vorresti e di provare ad abitarlo, a frequentarlo, non solo attraverso la fruizione dell’arte, ma attraverso la creazione di uno spazio pubblico. Short Theatre, in questo senso, non esce dalla dimensione metropolitana, la sospende e la intensifica. Il fatto di aver avuto per un periodo una doppia sede ha fatto emergere una forza propulsiva che poteva abitare questo e potenzialmente anche altri luoghi.
F.A.: Mi piacerebbe aggiungere che fin dalla prima edizione il tentativo è stato quello di costruire un discorso, cioè di tentare non solo di fare incontrare artisti di natura e generazioni diverse ma di farli incontrare intorno a un discorso. C’è sempre stato un tentativo forte di istituire centri di riflessione con cui relazionarsi, tant’è che fin dalla prima edizione abbiamo speso molto tempo a creare attorno agli spettacoli un apparato di conversazioni, incontri, confronti. Abbiamo sempre cercato di costruire una riflessione, se non una struttura di pensiero, che accompagnasse e orientasse la visione di questi incontri intra-generazionali. Da sempre abbiamo ospitato compagnie giovanissime che erano quasi alle prime esperienze e compagnie più adulte che magari si incontravano a Short Theatre in passaggi particolari della loro produzione perché avevano una forma poco adeguata al circuito dei teatri stabili, come è accaduto con le Albe, con Danio Manfredini, con la Valdoca. Abbiamo sempre cercato di fare in modo che anche il pubblico giovane che si avvicinava al festival spinto dalla curiosità nei confronti di giovani gruppi fosse messo in relazione anche con le generazioni del passato per costruire, o forse reinventare, una sorta di memoria. Questa volontà di mantenere viva una anti-tradizione che veniva continuamente polverizzata.
P.D.M.: rispetto a quello che dici, Fabrizio, sulla creazione di discorso e di dispositivi discorsivi, mi ha sempre interessato il fatto che Short si sia preso la briga di individuare un tema, di gettare nell’arena una o due parole attorno alle quali aggregare una serie di pensieri, ma anche entrare in risonanza con il palinsesto che veniva composto. C’è tutta una diatriba nelle arti performative se sia più corretto costruire un palinsesto che lasci lo spettatore nella possibilità di costruirsi un proprio percorso, se l’indirizzo di una traiettoria sia più inclusivo o meno inclusivo. Io ho sempre pensato che uno spazio debba prendersi la responsabilità di progettazione e di costruzione di un discorso, che bisogna avere la forza di individuare una traiettoria e che far convergere le diverse operatività intorno a questo nodo sia una presa in carico non da poco, anche perché le questioni che Short ha cercato di affrontare sono state radicali, sono state politiche, hanno toccato temi come la democrazia, il futuro…
F.A.: Fin dalla prima edizione abbiamo sempre scelto un sottotitolo che rappresentasse una traccia di riflessione, la più esatta possibile, su cui costruire il discorso e intorno alla quale confrontarsi in maniera sempre dialettica e non necessariamente consensuale. È stata una necessità forte che ci ha consentito di costruire dei fil rouge che naturalmente lo spettatore segue nel modo che gli sembra più interessante, ma che comunque costituiscono il fulcro, intorno al quale contestualizzare tutto quello che succedeva all’interno del Festival. Ma non ci siamo mai messi seduti a tavolino a scegliere il titolo, prima abbiamo scelto una serie di spettacoli e poi attorno a essi abbiamo costruito il giusto contenitore in cui raccoglierli, la prospettiva che ci sembrava li attraversasse e di conseguenza fosse la più atta ad articolare un discorso. Così mi pare, almeno, no Francesca?
F.C.: Sono molto d’accordo anche perché con il sottotitolo abbiamo definito l’inizio di un discorso con lo spettatore, è la prima battuta di un dialogo, non l’ultima. Tutto poi in questi quindici anni è cresciuto vertiginosamente, Short è diventato una macchina più complessa che risponde a economie più importanti. E una delle strade è stata quella dell’alleanza con la teoria, che per me è una cosa molto cara anche grazie all’esperienza che ne ho fatto all’interno di Short Theatre. È un’alleanza che guarda a tutte le intersezioni tra arte e attivismo, teoria e politica facendo così emergere che non c’è mai una cosa che commenta un’altra, ma c’è sempre un pensiero che entra in dialogo con altri pensieri, intendendo anche il teatro e lo spettacolo come forme di pensiero, al pari della filosofia o dei movimenti politici. Tornando alla città, anche Roma è cambiata molto. Quella relazione che Fabrizio ha raccontato, e che era possibile in un certo momento, con il Rialto e altri spazi sociali che sono venuti a mancare o sono stati debilitati dagli sfratti e dagli sgomberi, ha prodotto incontri e alleanze completamente diverse con dei club, con locali di Roma Est, con filosofi e filosofe internazionali. Tutte queste complicità, vicinanze, questo percorrere insieme pezzi di strada, si è articolato in un modo sempre più complesso, articolando una tattica più sofisticata, più capillare, più inedita. Bisogna cercare i nodi del discorso dove non ti aspetteresti di trovarli.
P.D.M.: Mi sembra che questo si colleghi anche alle azioni nell’Ex Gil*, alla loro istanza di tematizzare l’urgenza di decolonizzare la cultura. Sempre più entra in azione un discorso filosoficamente informato e orientato contro quelle logiche che operano e attivano forme di subalternità razziale, sessuale ed economica. Ecco, mi interessa capire come specialmente in anni recenti questa operatività e questa possibilità ancora una volta di occupare uno spazio con delle istanze decolonizzanti sia entrata in una progettualità curatoriale come quella di Short.
F.C.: seguendo la linea degli spazi che ci ha accompagnato fin dall’inizio della nostra conversazione, lo spazio della ex Gil arriva per ultimo. Questa che stiamo per vivere è la seconda edizione in cui ci occupiamo di questo luogo così complesso: abbiamo riflettuto tanto prima di capire se eravamo pronti o potevamo attrezzarci abbastanza per poterlo attraversare, in qualche modo è stata la possibilità per noi di incarnare e situare tutto ciò su cui stavamo lavorando. L’Ex Gil è uno spazio imponente, che fa paura, è uno spazio pieno di segni che per un romano sono anche segni consueti, perché la nostra città è piena di segni fascisti. È stata anche una procedura curatoriale diversa da quella a cui eravamo abituati, non nelle intenzioni ma nella pratica. Gli artisti sono stati coinvolti da subito, gli è stato chiesto se avevano voglia di abitare un luogo del genere, perché e in che modo. E’ stato un discorso condiviso, aperto, ritracciato, controverso e pieno di dubbi, quindi estremamente intenso, ma siamo usciti dall’Ex Gil sapendo che è davvero possibile restituire, riappropriarsi di luoghi così fortemente segnati senza farsi divorare da loro, ma utilizzandoli come strumenti di decolonizzazione del nostro sguardo, del nostro pensiero.
P.D.M.: Volevo sapere da Fabrizio, invece, cosa porta di nuovo dentro Short un progetto come Panorama Roma che riprende il tema del rapporto con i luoghi, con i gruppi artistici e più in generale con quella che sempre di più è la fragilità dei processi di creazione…
F.A.: Panorama Roma è l’altro polo del discorso iniziato con WeGil, come sempre sulla base di un’occasione. Il discorso di Panorama Roma non è molto diverso: venendo a mancare i luoghi, le dimensioni di lavoro e le alleanze di cui ha parlato Francesca, con Panorama Roma, c’è stato lo sgretolamento di quella sorta di filiera virtuosa che eravamo riusciti a mettere insieme con la complicità degli spazi informali romani. È chiaro che ora ci troviamo in un altro contesto, in un’altra situazione, ci troviamo in una città completamente diversa, dove quello che per noi è sempre stato normale, cioè che ci fosse un dialogo tra le compagnie, che ci fosse un confronto e una riflessione costante, è venuto di nuovo a mancare. Vuoi perché, come è ovvio che sia, per generazione e per età ciascuno ha trovato la sua strada. Vuoi perché non esistono più dei luoghi di incontro, di riflessione e di confronto, luoghi come il Rialto e l’Angelo Mai – e ce n’erano molti altri – dove non solo costruivamo i nostri spettacoli e facevamo le prove, ma avevamo la possibilità di confrontarci con gli altri. Anche in questo caso, Short Theatre si è nuovamente trovato nella necessità di colmare un vuoto. Quest’anno a differenza degli altri anni, la formula di Panorama Roma invece di essere la presentazione del proprio lavoro tenta di fare un piccolo passo avanti, costruendo assieme al progetto Fabulamundi il tassello di una possibile modalità produttiva. Perché non si incontra il pubblico solo al debutto, lo si incontra anche durante il processo creativo.
A.S.: Uno dei titoli delle ultime edizioni di Short Theatre parlava di “Nostalgia di futuro”. Mi ricordo che qualcuno commentò: il futuro non è più quello di una volta. Vogliamo chiudere questa conversazione parlando di cosa Short Theatre sta depositando nel futuro, visto che voi due, Fabrizio e Francesca, lo state per l’appunto consegnando al futuro?
F.A.: questo chiaramente è un tasto dolente, per me e immagino lo sia anche per Francesca: non è facile pensare di “abbandonare” Short Theatre, ma è anche un atto un po’ dovuto, perché credo che sia altrettanto importante che un modello come quello di Short, che è sempre stato un modello inquieto alla ricerca costantemente di confini e di vuoti da colmare e necessità a cui rispondere, sia arrivato a un punto in cui sperimenti anche la possibilità di accogliere anche altre generazioni di curatori che si occupino di teatro in questo modo. È da un po’ che pensiam, a un futuro altro per un festival che ha delle caratteristiche più uniche che rare, come quella di svolgersi in una metropoli e di dialogare incessantemente con quello che accade intorno, cercando appunto sempre l’interstizio giusto dove andarsi a posizionare.
F.C.: quello che dice Fabrizio vale anche per me: non è facile lasciare qualcosa dentro al quale e con il quale si è cresciuti. Ora credo che Short Theatre sia in un momento in cui la sua identità è molto chiara e che quindi possa anche essere tradita. Il tentativo che vorremmo fare è di permettere questo ricambio, per dare la possibilità a curatori e curatrici di crescerci dentro, come abbiamo fatto noi, ma anche per dare un destino a Short Theatre che non abbiamo la capacità di individuare o di immaginare, in forme che noi non vediamo. Pur essendo enormemente cresciuto nel tempo, Short resta un meccanismo non finito che nessun atteggiamento curatoriale potrebbe esaurire, il festival è uno spazio inquieto, in un certo senso più forte di chi lo controlla, dove è difficile, se non impossibile, accomodarsi. Esistono due modelli: quello “occupazionale” dei festival e delle istituzioni culturali che vengono diretti per decenni dalle stesse persone, e quello del ricambio che ogni volta azzera bruscamente la dirigenza e ricomincia ogni volta da capo. Qual è la giusta misura invece? Personalmente credo che le cose importanti siano per la vita e dunque in qualche modo la mia relazione con Short è “per la vita”. Ma questo tutto significa fuorché occupare un posto: è proprio per prendermene cura, invece, che voglio lasciare spazio.