VIANDANZE

Alla periferia del senso

di Brent Hayes Edward
traduzione di Giulia Crispiani
Quello che segue è un estratto del saggio Il suono di un segreto che tuttɜ sanno. La poetica di Fred Moten di Brent Hayes Edward, docente di Inglese e Letteratura comparata della Columbia University di New York. Questo testo introduce il volume di poesie di Fred Moten, in uscita per NERO come terza pubblicazione della serie Short Books, dedicata all’intreccio tra estetica, pensiero critico e pratiche performative. La raccolta contiene le poesie performate da Moten nel reading poetico Sounding the Open Secret al Teatro Argentina, opening di Short Theatre 2023.

[…] Uno dei motivi per cui la poesia di Moten può sembrare rumorosa, se non addirittura chiassosa, è che c’è tanta gente nello spazio della sua pagina: insieme all’ampia portata del suo raggio d’attenzione, l’altra qualità che risalta immediatamente è quanto sia popolato il suo lavoro, non solo di voci, luoghi e oggetti, ma anche di individui chiamati per nome, tra cui qualcunə che non resta nemmeno a lungo abbastanza per essere adeguatamente identificatə. Si prendano ad esempio i primi versi di The Feel Trio: «ogni volta che ascolto cornelius penso a cecily / poi fry poi dr. house poi a leggere the blacks con / peter pál»(1). A qualunque livello della poesia – dalla predilezione formale per il montaggio e la serialità nel modo in cui sono composti i libri ai costanti salti paratattici e le variazioni grammaticali; le brusche transizioni tra soggetti, luoghi geografici e registri linguistici; anche gli slittamenti omofonici e anagrammatici da una parola all’altra – da Jean Toomer a «gene tumor» e «stream tuner»(2) ; da slave trade a «salve trade»(3) – il lavoro di Moten suggerisce una sorta di convergenza o assemblaggio di una collettività non specificata e continuamente ricostituita.
La bibliografia su questi «scaffali» è l’«archivio principale dell’enorme accozzaglia»(4). E questo vale anche per la ribadita predilezione a immaginare luoghi di congregazione, specialmente quando sono occupazioni, bivacchi, spazi illeciti, temporanei, istantanei, underground: «l’insieme segreto / negli edifici»(5); un rent party con il suo «curriculum» indigeno(6); la «cappella di quartiere», la cella di prigione che è paradossalmente anche un luogo di culto e di sublimazione(7); un «vestibolo» o un’«anticamera»(8); il «giardino del mormorio»(9); Hughson’s Tavern(10).
La sfida della poesia è perciò non tanto una questione di musica quanto di trasferimento dialettico di una poetica che mette in atto collettività, mentre al contempo insiste sulla natura effimera delle sue convocazioni. Questa problematica è richiamata ad esempio in barbara lee, un’ars poetica in tre parti verso la fine di B Jenkins: da una parte, «la poesia indaga nuovi espedienti per far incontrare la gente e fare cose all’aperto, in segreto. La poesia mette in atto e confessa il segreto che tuttɜ sanno»; dall’altra, se «il mondo è una zona da cui e in cui la vita scappa costantemente» allora lɜ poetɜ «cantano la forma di quell’infinito correre, quella corsa continua, evadendo sempre la frase o l’affilata sentenza».(12)

ph. Kari Orviks

Questa poetica fuggitiva è allo stesso modo e non a caso una politica.(13) Questo è il punto dei titoli delle due sezioni della già citata barbara lee: The Poetics of Political Form – che inverte il titolo di una raccolta di saggi redatta da Charles Bernstein(14) – e The Unacknowledged Legislator. Thom Donovan osserva che il primo, influente libro di critica di Moten In the Break: The Aesthetics of the Black Radical Tradition (2003) si concentra sulla tesi secondo cui «la resistenza dell’oggetto (ovvero il corpo dello schiavo di un tempo, che cerca la sua libertà nello spirito, quello che non può essere posseduto ma che comunque possiede quel corpo nei privilegiati momenti d’espressione) modella una forma di organizzazione, di responsabilità, di discorso e di economia politica e sociale», che non è altro che un modo di descrivere la stessa tradizione radicale nera.(15) La poesia serve quindi anche – precisamente attraverso la sua «difficoltà», vale a dire nei modi in cui rievoca il linguaggio in una forma che si sottrae alla comprensione («scivolando via dal previsto» con il «posizionamento della verità o del segreto in quello spazio di tensione o movimento che è caratterizzato dall’oscurità e dall’opacità»(16)) – come un’attuazione della «pulsione alla liberazione».
Come osserva Donovan, nel lavoro di Moten «la poesia diventa sito in cui si verifica la resistenza dell’oggetto; la poesia è anche un’estensione di questo oggetto. In parole povere, è prostetica. La poesia è la rottura, è l’interruzione, rimette in circolo e inscrive una genealogia di forme sonore».(17) Per Moten, l’«irriducibile e continuo» suono della poetica fuggitiva è «il suono della resistenza alla schiavitù; la critica della proprietà (privata) e dell’appropriato»(18).
Con il suo torrente di nomi, allusioni e voci, la poesia di Moten compie una «continua improvvisazione di una specie di lirismo dell’eccesso»(19). La sfida e la frustrazione – ma anche una parte non esigua del piacere – della lettura hanno completamente a che fare con una sensazione dell’intelletto a cui non viene concesso nessun punto d’appoggio nel flusso di «troppi appunti».(20) Nell’illuminante intervista del 2004 con il redattore Charles Rowell, ristampata nell’appendice di B Jenkins, Moten spiega:

Penso che la poesia sia quello che succede o si convoglia nella periferia del senso, nella periferia del significato normativo. Io provo a lavorare precisamente su quel margine, e ritengo che il contenuto veicolato su quel margine, su quella faglia, sia più ricco, più profondo e più pieno di tutte quelle cose che succedono con la scrittura e che passano per immediate.(21)

Allo stesso tempo, questa convinzione non risulta né nella poesia nonsense di Lewis Carroll o di Edward Lear né nella poesia sonora di Kurt Schwitters o di Christian Bök. La poesia di Moten è intrisa di riferimenti storici e dense riflessioni filosofiche. È una poesia che si rifiuta di rinunciare all’impulso della teoria anche nello spasmo della sua musica.

 


NOTE

(1) «whenever I listen to cornelius I think of cecily / then fry then house then read the blacks with / peter pál», Fred Moten, The Feel Trio, Letter Machine Editions, Tucson (AZ) 2014, p. 3.

(2) Ivi, p. 74.

(3) Fred Moten, Hughson’s Tavern, Leon Works, Providence 2008, p. 65

(4) «tutto questo è insito nella natura dei miei scaffali. / loro sono l’archivio principale dell’enorme accozzaglia», Fred Moten, B Jenkins, Duke University Press, Durham 2010, p. 26.

(5) «the secret whole / in buildings», Ivi, p. 12.

(6) Fred Moten, The Little Edges, Wesleyan University Press, Middletown 2015, p. 62.

(7) The Feel Trio, cit.

(8) B Jenkins, cit., p. 86.

(9) The Little Edges, cit., p. 68.

(10) Il titolo del libro di Moten si riferisce a una storica taverna sul lungomare della bassa Manhattan, uno dei principali punti di incontro per un gruppo multietnico di marinai, prostitute e criminali responsabili della Grande Cospirazione di New York, anche nota come Grande Complotto Nero del 1741, un tentativo incredibilmente sfrontato di «insurrezione urbana». Si veda Peter Linebaugh e Marcus Rediker, «“I reietti delle nazioni della terra”», in I ribelli dell’Atlantico. La storia perduta di un’utopia libertaria, trad. it. di B. Amato, Feltrinelli 2004, pp. 180-215.

(11) Come Moten constata altrove, questa riga allude all’assunto di Foucault secondo il quale «la vita [non è] stata integrata in modo esaustivo a delle tecniche che la dominano e la gestiscono; essa sfugge loro senza posa». Micheal Foucault, Storia della sessualità. Vol. 1: La volontà di sapere, trad. di P. Pasquino e G. Procacci, Feltrinelli 2013, p. 126. Si veda Charles H. Rowell, «“Words Don’t Go There”: An Interview with Fred Moten», in B Jenkins, cit., p. 108. Mentre la poesia di Moten tende alla fuggitività del linguaggio, alcuni dei suoi lavori teorici elaborano questo punto rispetto a politica e governabilità. Si veda ad esempio Stefano Harney e Fred Moten, «Nerezza e Governance», in Undercommons. Pianificazione fuggitiva e studio nero, trad. it. di E. Maltese, Tamu/Archive Books 2021, p. 97.

(12) «Poetry investigates new ways for people to get together and do stuff in the open, in secret. Poetry enacts and tells the open secret»; «the world is a zone from and within which life is constantly escaping»; «sing the form of that endless running, that ongoing running on, always busting out of the sentence or cutting being-sentenced», B Jenkins, cit., p. 84, 86.

(13) Moten osserva che la sua concezione di «fuggitività» deriva da un vasto lignaggio di pensatorɜ della diaspora africana (tra cui Zora Neale Hurston, Amiri Baraka, Kamau Brathwaite, e W.E.B. Du Bois). Si vedano nello specifico Nathaniel Mackey, «Other: From Noun to Verb», in Discrepant Engagement: Dissonance, Cross-Culturality, and Experimental Writing, Cambridge University Press 1993, pag. 269-274; Nathaniel Mackey, «Cante Moro», in Paracritical Hinge: Essays, Talks, Notes, Interviews, University of Wisconsin Press 2005, p. 187.

(14) Charles Bernstein (a cura di), The Politics of Poetic Form: Poetry and Public Policy, Roof Books 1990.

(15) Thom Donovan, «A Grave in Exchange for the Commons: Fred Moten and the Resistance of the Object», Jacket 2, 6 aprile 2011.

(16) B Jenkins, cit., p. 108

(17) Donovan, art. cit.

(18) B Jenkins, cit., p. 108.

(19) In the Break, cit., p. 26.

(20) Sulla «multidominanza» nelle estetiche della diaspora Africana si veda George E. Lewis, «Too Many Notes: Computers, Complexity, and Culture in “Voyager”», Leonardo Music Journal 10, 2000, p. 33.

(21) B Jenkins, cit., p. 104


Brent Hayes Edwards è professore di letteratura inglese e comparata presso la Columbia University e direttore della rivista PMLA. Tra i suoi libri premiati:The Practice of Diaspora: Literature, Translation, and the Rise of Black Internationalism (2003), Epistrophies: Jazz and the Literary Imagination (2017), e l’autobiografia scritta insieme al compositore premio Pulitzer Henry Threadgill, Easily Slip into Another World: A Life in Music (2023). Le sue traduzioni dal francese includono il monumentale 1934 Phantom Africa di Michel Leiris (2017) e poesie, narrativa e saggi di Edouard Glissant, Paulette Nardal, Monchoachi, Sony Labou Tansi e Jacques Derrida, tra gli altri. Edwards è stato Guggenheim Fellow nel 2015 e nel 2022-23 è stato uno dei primi Ford Foundation Scholars in Residence al Museum of Modern Art.


VIANDANZE è la sezione di CUT/ANALOGUE delle scritture in interdipendenza dinamica con le pratiche artistiche e le opere presenti al festival (e altrove). Propone una forma di prossimità somatica tra chi osserva e chi è osservato per far balenare pensieri sul sensibile che avviene in scena.

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