COMBIN/AZIONI

La galleria dei sonnambuli

Edoardo Lazzari in conversazione con Alessandro Sciarroni
L’Acquario Romano, con la sua monumentalità classicheggiante incastonata tra la Stazione Termini e Piazza Vittorio, diventa l’ambiente di DREAM, l’ultima creazione del coreografo Alessandro Sciarroni. Performance di lunga durata (5 ore), situata nel volume ellittico dell’Acquario, invita il pubblico a muoversi liberamente nello spazio, dove lə performer, in uno stato emotivo di dormiveglia, attivano tocchi e incontri affettivi, conversazioni gestuali e sintonizzazioni, galleggiando in una dimensione onirica.
DREAM è pensato come un evento gratuito per la cittadinanza. Edoardo Lazzari in dialogo con Alessandro Sciarroni ne interroga le pieghe compositive e le tensioni drammatiche.

DREAM prende forma a partire dal luogo in cui, di volta in volta, esiste. Spesso i tuoi lavori hanno una versione scenica da palco e una site-specific. Che cosa significa abitare luoghi non deputati alla scena?

È vero, tutti gli ultimi lavori hanno questa doppia natura: una teatrale e una più site-specific. Il processo attiva diverse dinamiche: a volte è lo spazio che chiama il lavoro e a volte è il contrario. La grammatica dei corpi, la loro qualità è modellata a partire dagli spazi, mentre la parte tecnica, ad esempio il disegno delle luci, arriva alla fine. Credo sia un lavoro di captazione dell’energia nella relazione spaziale, per veicolarla dal corpo dei performer a quello delle persone coinvolte.

Acquario Romano

A proposito di spazialità e geografie, nel romanzo che viene donato alla fine dell’esperienza di DREAM, fai riferimento alla città di Roma, alla tua abitazione e ad altre traiettorie, a come hanno informato il processo di scrittura coreografica…

Nel libro l’azione principale si svolge in un paesino, Grottammare, a una manciata di chilometri da San Benedetto del Tronto nelle Marche. Le storie che racconto sono tutte realmente accadute, ad esempio gli accadimenti al Teatro dell’Arancio e la vicenda della costruzione delle bare durante l’influenza spagnola, utilizzando il legno dei suoi arredi. A Roma, invece, sono ambientati i ricordi del personaggio che parla dal futuro, sebbene non sia chiaro se si tratti di un fantasma, di una coscienza, di voce senza soggetto.
All’interno dei condomini gialli, che cito, ho comprato casa nel quartiere romano di Santa Croce in Gerusalemme. Alcuni degli avvenimenti tra i personaggi sono autobiografici, corrispondono alla relazione con i miei genitori, ma non mi interessa che questo aspetto venga riconosciuto come tale.
DREAM ha richiesto, per la prima volta, la pratica della scrittura che ho esercitato come un processo quotidiano: ogni giorno ho scritto riprendendo da dove avevo lasciato il giorno prima. Lo spettacolo è poi arrivato senza preavviso, e così Matteo, Elena, Marta, Pere, Valerio e Edoardo sono finiti dentro la scrittura.

Nelle tue creazioni di ambienti o spettacoli interroghi la relazione tra il tempo e i corpi in scena, talvolta con corrispondenze forsennate. In DREAM mi sembra ci sia una profonda attenzione alla scrittura del tempo, quello della veglia e quello del sonno.

L’intuizione di DREAM è nata durante il secondo lockdown. Mi trovavo con Marta Ciappina e Matteo Ramponi a Polverigi, per una settimana di ricerca. Per la prima volta mi ha mosso il desiderio di lavorare con due persone precise, piuttosto che partire da un’idea. La scintilla del lavoro si è accesa nell’osservarli da vicino. Improvvisamente ci si poteva concentrare sul movimento di un mignolo, alla ricerca di una relazione diversa, una grammatica nuova. Da questo esercizio dello sguardo è nata la percezione di performer come sculture viventi, figure da osservare, a cui approssimarsi, con cui interagire.
Il sogno è stato il secondo elemento, quindi il sonno e lo sguardo. Il performer non guarda mai il pubblico negli occhi, il suo sguardo è come dissolto altrove, è sospeso tra il presente e un’altra dimensione. Come il corpo sonnambulo che si trova in un luogo fisico che probabilmente non percepisce, che percorre immerso nel sonno. Volevo aprire un varco in questo spazio ambiguo e simultaneo, in cui il maglione di uno spettatore diventa, nel sonno della sua immaginazione, la chioma di un albero. Questa dimensione trasfigurata della realtà accade grazie alla musica che infiamma gli immaginari di DREAM.

Come hai dichiarato, il romanzo Le Onde di Virginia Woolf è uno dei pilastri del tuo lavoro. Woolf definisce il libro come “un romanzo senz’occhi e soltanto con le orecchie”. Mi fa molto pensare alla questione dello sguardo di cui hai appena parlato. Risuona con il concetto di Radical Sympathy, quest’anno al cuore di Short Theatre. In Influx & Efflux. Writing up with Walt Whitman, la filosofa americana Jane Bennett indaga la complessità dell’uso che Whitman fa del termine “simpatia”, leggendolo non soltanto come un sentimento morale, che lega una persona all’altra, ma come un’atmosfera di “eros indeterminato”. È così che parlerei della mia esperienza di attraversamento di DREAM.

Una simpatia che percepisco con chiarezza. Soprattutto nella possibilità di stare e creare un legame con le persone che restano per un tempo lungo nella stanza. In generale, dopo lo spettacolo, si ha la sensazione di un tempo speso insieme, alludendo a una sorta di conoscenza pregressa. Si generano inedite corrispondenze. Talvolta avvengono degli abbandoni, quando qualcuno si addormenta o si perde nel flusso dei suoi pensieri, interrompendo l’osservazione e la presenza a sé stessə. Lasciando le redini di una fruizione legata alla comprensione, all’interpretazione, “semplicemente” si sta.

L’abbandono non è disinteresse, ma uno stare in comunanza, un abitare-sentire insieme. Ci sono delle corrispondenze affettive, flussi magnetici. C’è anche la relazione tra esseri umani e finitudine, convochi la fine del mondo. Più che in altri lavori mi sembra che qui il discorso scenico sia apra a questioni universali…

Il messaggio è stato senza dubbio consegnato al romanzo. Ancor prima della recente rafforzata presenza dei movimenti ambientalisti, sono rimasto molto colpito dell’esistenza di un movimento americano degli anni ’90 per l’estinzione volontaria del genere umano. Che si tratti di provocazione o meno, ciò che mi interessa è la sua natura spontanea, non coercitiva, che nasce dal riconoscimento che c’è un’unica soluzione possibile. Più che la soluzione proposta, sono affascinato dal moto immaginativo messo in atto. Guardo sempre ai gesti straordinari, estremi degli esseri umani. Ho voluto riprendere questa azione, collocandola però nel passato anziché nel futuro, generando un cortocircuito e lasciandola sprofondare in una fiction impossibile. È stato per me l’appiglio e il punto di sviluppo della composizione.

Dream libro © Francesca Occhi

L’errore, l’errare è una componente rilevante della tua produzione artistica. È intesa come postura, che ritrovo anche in DREAM: è un nodo tematico messo in campo per agire.

Mi sono confrontato con l’errore già dal 2013, lavorando con i giocolieri di UNTITLED_I will be there when you die. Cade una pallina, un numero non riesce e la tendenza è camuffare. Ho provato invece a chiedere loro di creare una frattura nel senso e nel tempo, usando l’errore, fermandosi e ricominciando. Mi interessa l’anomalia del tempo del non fare, soprattutto quando la ripetizione sembra creare un’altra dimensione. Ciò avviene ancora, ad esempio quando la stanchezza rompe la coreografia. Mi piace pensare che al posto di fermarsi e riposarsi, ci si possa fermare e rilasciare lo sforzo verso l’esterno. Si può così generare un’immobilità vibrante in azioni, pattern, gesti. In DREAM la dimensione dell’errore si espande e interessa la relazione con le persone presenti. “Sbagliato” può essere, infatti, un contatto troppo invadente, oppure la mancanza totale di interazione, come è successo durante le prime due ore a Milano, dove a muoversi erano solo gli sguardi.

Come si può intendere la dimensione corale in DREAM? In altri tuoi lavori era particolarmente esplicita. Se alle singolarità è spesso lasciata libertà interpretativa, è possibile rintracciare una partitura comune…

In effetti non c’è una partitura comune, DREAM è concepito come un dispositivo di interazione, dove l’incontro tra le parti rigenera la performance. Ecco perché le due ore di immobilità alla Triennale di Milano ci hanno rivelato di essere totalmente impreparati alla fruizione frontale. Questa possibilità non era prevista. Quello che cerchiamo ogni volta è una costellazione frastagliata, in cui la dimensione onirica immersiva del performer sia capace di intercettare quella di chi ha davanti. È la prima volta che sperimento una dimensione “di solo” all’interno di un gruppo. Ognuno entra e esce dal proprio sogno, talvolta i sogni si incontrano, se i performer si incrociano. Non si guardano mai, ma può succedere che si tocchino e che una mano sulla spalla generi la fantasia di un tronco spezzato caduto addosso. I gesti informano le visioni dei performer. L’input che arriva dall’esterno entra all’interno del solo e diventa materiale compositivo.

Un procedere, quindi, lontano dalla scrittura coreografica?

La coreografia manca e di questo inizialmente i performer hanno sofferto. Abbiamo lavorato a partire dalla dimensione del gesto, senza deciderne la natura. Ad esempio, volevamo evitare movimenti troppo ampi perché avrebbero impedito un avvicinamento del pubblico.
In generale, non immagino mai una serie di movimenti nello spazio da trasmettere agli interpreti. Non compongo, non così. Quando costruisco un lavoro scrivo una pagina al giorno – un po’ come per il romanzo – per riprendere sempre da dove ho interrotto in una idea di continuum con fratture. Procedo per frammenti, per schegge, lasciando che qualcosa avvenga in scena, attraverso le presenze incarnate nelle peculiarità di ogni gesto e di ogni corpo.


Alessandro Sciarroni è un artista attivo nell’ambito delle Performing Arts con alle spalle diversi anni di formazione nel campo delle arti visive e di ricerca teatrale. I suoi lavori vengono presentati in festival di danza e teatro contemporanei, musei e gallerie d’arte, così come in spazi non convenzionali rispetto ai tradizionali luoghi di fruizionee prevedono il coinvolgimento di professionistə provenienti da diverse discipline. Tra i vari riconoscimenti, nel 2019 riceve il Leone d’Oro alla Carriera per la Danza.
Il lavoro di Sciarroni parte da un’impostazione concettuale di matrice duchampiana, fa ricorso a un impianto teatrale, e puòutilizzare tecniche e pratiche della danza, come da altre discipline. Oltre al rigore e alla nitidezza di ogni creazione, i suoi lavori tentano di disvelare, attraverso la ripetizione di una pratica fino ai limiti della resistenza fisica dellə interpreti, le ossessioni, le paure e la fragilità dell’atto performativo.

Edoardo Lazzari è curatore indipendente e dottorando presso l’Università La Sapienza di Roma, dove conduce una ricerca che indaga la pratica curatoriale come metodologia ecologica di convivenza tra corpi. Negli ultimi anni, ha curato e condotto public program, progetti pedagogici e partecipativi in contesti istituzionali (Palazzo Grassi – Punta della Dogana, Collezione Peggy Guggenheim, La Biennale di Venezia, MUDAM Luxembourg) e non (Biennale Urbana, Venere in Teatro, Fondazione Lac o Le Mon). Ha collaborato alla curatela del libro performance + curatela di Piersandra Di Matteo (Luca Sossella Editore, 2021) e tradotto il primo testo della collana Short Books Palcoscenici Fantasma. GisèleVienne (Nero, 2022). Fa parte di Extragarbo, con cui realizza diversi progetti artistici e curatoriali legati alle arti performative.


COMBIN/AZIONI è la sezione di CUT/ANALOGUE delle conversazioni, spazio per un materiale che si attiva in una reciproca implicazione. Campo di possibilità discorsive che si generano come mescolanze dinamiche tra soggetti, situate in un tempo, contingenti.


ph. Alessandro Sciarroni

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