TURBOLENZE

IL LUTTO COME STRUMENTO

Canalizzare la tristezza, sentire il tempo, studiare la perdita (punto di partenza)
di Katerina Andreou

In ogni parte del mondo, antico e moderno, i rituali legati alla morte investono la sfera del femminile. Le donne lavano, vestono e decorano il cadavere per poi accompagnarlo con lamenti al luogo della sepoltura. Il lamento è un’espressione di estremo dolore che precede qualsiasi altro tipo di rituale orale e che ha portato alla creazione dei più antichi poemi epici della cultura umana. Nella maggior parte delle culture, le donne possono essere assunte come lamentatrici professioniste, dove prima del rito funebre vengono informate sul profilo e sulla storia del defunto che dovranno piangere. La lamentazione è quindi una consegna da portare a termine, una performance. In questo caso, però, performare non significa fingere, perché persino le lamentatrici ingaggiate per l’occasione sono emotivamente coinvolte nella morte della persona che stanno compiangendo. La performance è un contratto sociale, deve essere compiuta e il ruolo della lamentatrice deve essere sempre impersonato da qualcuno per il mantenimento dell’ordine sociale, per esprimere il dolore collettivo rappresentato dalla perdita individuale. Attraverso la loro performance, le lamentatrici ricordano il debito del lutto nei confronti della comunità e allo stesso tempo danno corpo alla comunità, al dolore degli individui che soffrono per la perdita della persona cara.
Nella performance della lamentazione ci sono regole ritmiche e vari elementi ricorrenti che sono, però, frutto di un’improvvisazione. Questa parte improvvisata, il lamento principale, irrompe in maniera spontanea da un dolore travolgente e viene a malapena controllato dalla lamentatrice. Il suono della morte è una forza impressionante che si impadronisce delle corde vocali della donna, che sgorga dalla sua bocca come un torrente dalle sfrenate e molteplici configurazioni: i contenuti letterari elevati cedono il loro posto al linguaggio di strada, la poesia si trasforma in imprecazioni, e gli strepiti tempestosi sono preceduti dai mari calmi nella voce nell’intonazione della lamentatrice. In definitiva, nonostante la formalità dell’esecuzione, la nenia è qualcosa di incontrollabile e inconoscibile, il che la rende impossibile da ripetere o da possedere nella sua interezza. Questo spiega come uno stesso compianto possa produrre elegie con stile e qualità completamente diverse. Tuttavia sarebbe sbagliato supporre che i lamenti derivino semplicemente dall’interno, dallo stato emotivo di chi li piange. Un lamento, infatti, è composto tipicamente da fatti concreti sulla storia del morto, informazioni apparentemente note soltanto alla lamentatrice che sembra averle raccolte da fonti sconosciute. La lamentatrice mescola così il flusso di informazioni che possiede sul passato del defunto con i dati che raccoglie in tempo reale, aggiungendo materiale speculativo ed elaborando il tutto a una velocità incredibile mentre lo vocalizza. La lamentatrice non è quindi solo un’oratrice, ma anche un’attenta ascoltatrice.
Al suo culmine la voce del lamento lascia il passato e il presente di questo mondo per aprire una porta verso l’ultraterreno. Più che esprimere sonoramente il lutto e il dolore della perdita, il lamento è radicato in una fede concreta nell’aldilà in quanto futuro immaginato dei morti. Le lamentatrici sono coinvolte attivamente nel destino dell’aldilà del corpo morto e sono interessate non solo al suo passato ma anche al suo futuro, quello che i vivi non possono conoscere ma soltanto ipotizzare.

La lamentatrice principale non deve essere interrotta in nessun caso durante la preparazione del suo lamento ed è tipicamente temuta, ammirata, rispettata, ma anche derisa e odiata soprattutto dagli uomini, che considerano il lamento una pericolosa stregoneria. La minaccia che le prefiche rappresentano per l’ordine sociale è dovuta all’estrema incertezza che uno stato orgiastico di dolore porta con sé. Ma ha anche a che fare con il fatto che, nella lamentazione, alle donne era concesso un momento isolato e indipendente di espressione. Per questo motivo le lamentatrici spesso si allontanavano dalla morte specifica che stavano piangendo per passare ad altre questioni sensibili, politiche, private e pubbliche, comunemente inaccessibili alle donne e, in alcuni casi, anche agli uomini.

Eleni Ikoniadou, The Lament

Credo che il lutto sia un filo conduttore da seguire in questo periodo, un momento per dare voce e rendere visibili sensibilità cancellate. Avendo sperimentato e continuando a sperimentare un tipo di malinconia che si presenta come condivisa e collettiva, l’elaborazione del lutto che è una delle mie (re)azioni al presente, mi sembra un compito, un concetto e una pratica necessaria. Ma cosa dovrei piangere esattamente? Uno potrebbe dire la perdita della vita culturale, l’orrore della politica, la distruzione dell’ambiente, la continua violenza… Non voglio nominare nessun soggetto o oggetto della perdita, perché così facendo perderei il potenziale e la funzionalità del lutto che, al contrario, dovrebbe essere un motore di sperimentazione, scoperta, speranza. Ho bisogno di separare il lutto da qualsiasi tipo di “morte” di cui parlavamo in precedenza, e cercare di preservarlo nella sua funzione di attivatore alla base della mia ricerca, al fine di osservare ciò che è rimasto da piangere, e soprattutto quali conoscenze e quali possibilità questo può produrre. Ho bisogno di continuare a osservare la tristezza per attivare il mio corpo, costruire un discorso e alimentare nuovi desideri. Il lutto potrebbe diventare una prassi metodologica per la comprensione del tempo: la relazione (o la non relazione) tra il passato, il presente e il futuro, l’esistenza o la mancanza della sua storicità. Lavorare con la memoria, osservare quali narrazioni sono state rimosse e poi ipotizzare quale sia l’“aldilà” di oggi. Il mio lutto è la ricerca che sta prima di un pezzo di danza, è il passato del pezzo che verrà e uno strumento per tenermi in tensione e costruirlo, che è già futuro.

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ISPIRAZIONE: FANTASMI, NOSTALGIA E FUTURI PERDUTI DI MARK FISHER

Ciò che dovrebbe perseguitarci non è il non-più della socialdemocrazia attualmente esistente [per esempio], ma il non-ancora dei futuri che il modernismo popolare ci ha addestrato ad aspettarci ma che non si sono mai materializzati. Questi spettri—gli spettri dei futuri perduti—rimproverano la nostalgia formale del mondo realista capitalista. Ci mostrano, nonostante tutto, che non siamo costretti a vivere come effettivamente viviamo: che ci sarebbe potuto essere e quindi potrebbe ancora esserci un altro modo di organizzare le cose.

Mark Fisher, Spettri della mia vita. Scritti su depressione, hauntologia e futuri perduti

Mark Fisher era un critico culturale e blogger che si è tolto la vita nel 2017, ha reso popolare l’uso del concetto di hauntologia di Jacques Derrida per descrivere un sentimento pervasivo che perseguita la cultura contemporanea con i “futuri perduti” della modernità che non si sono avverati o sono stati cancellati dalla postmodernità e dal neoliberismo. Fisher, insieme ad altri, ha posto l’attenzione sul passaggio alle economie post-fordiste durante la fine degli anni ‘70, che secondo lui ha “gradualmente e sistematicamente privato gli artisti delle risorse necessarie per produrre il nuovo”. Questo significa che non viviamo in un mondo in trasformazione che produce storia, ma in un sogno infestato dalla storia. Fisher ha infatti messo in relazione la “fine della storia” dei primi anni ‘90 con la convinzione che oramai non esistano alternative al sistema capitalista. Ha parlato di una “lenta cancellazione del futuro”: sia nella cultura che nella politica sembriamo bloccati nello stesso ciclo e il tempo culturale si è completamente ripiegato su sé stesso. La cultura popolare del XX secolo è stata colta da un delirio ricombinatorio che ha dato la sensazione che la novità fosse infinitamente disponibile. “Fate ascoltare un disco jungle del 1993 a qualcuno nel 1989”, ha detto Fisher, “e suonerà come qualcosa di così nuovo da spingerlo a ripensare a ciò che la musica era o poteva essere”. Secondo Fisher, l’attuale momento culturale è “in preda a una nostalgia formale”, in cui le cose apparentemente “nuove” vengono prodotte solo attraverso l’imitazione e il pastiche di vecchie forme.
Ha definito l’hauntologia come un’estetica saldamente radicata all’idea di nostalgia intesa come interruzione temporale. Invece della mera ripetizione, questa distanza della nostalgia fornisce un senso di perdita e di lutto e rivitalizza il potenziale di un utopismo per l’epoca attuale. Ciò che abbiamo perso non è il passato, ma la possibilità di cambiare. L’hauntologia non si limita a guardare indietro e non cerca di riprodurre un passato perduto. L’hauntologia, quindi, non ha a che fare solamente con la nostalgia, ma anche con l’immaginazione. Qualsiasi politica progressista degna di questo nome si fonda sulla nostra capacità di immaginare un mondo migliore di quello attuale.

Quando l’innovazione culturale si è arenata o è persino arretrata, […] una funzione dell’hauntologia è quella di continuare a insistere sull’esistenza di futuri al di là del tempo terminale della postmodernità. Quando il presente ha rinunciato al futuro, dobbiamo ascoltare le reliquie del futuro nelle potenzialità non attivate del passato.

Mark Fisher, Spettri della mia vita, cit.

Katerina Andreou in Mourn Baby Mourn, ph. Hélène Robert

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CORPI VAPORIZZATI MA PESANTI, SILENZIOSI MA RUMOROSI

La musica vaporwave è essenzialmente postmoderna; è un sintomo di come abbiamo abbandonato la ricerca di come trasformare il mondo reale al di fuori della nostra comprensione e della nostra cultura, e ci siamo invece dedicati al compito di smantellarne la nostra comprensione. Ovvero, invece di cambiare il mondo, iniziamo a decostruire tutti i modi che abbiamo creato per conoscerlo.

Grafton Tanner, Babbling Corpse : Vaporwave and the Commodification of Ghosts

Anche se è in corso un dibattito sulla questione se la musica vaporwave americana sia un’arte hauntologica o meno (per alcuni è solo un meme su internet), a me interessa la metodologia con cui viene creata. Questa spesso si basa sulla decostruzione di ciò che è già stato fatto, di ciò che è già conosciuto—al fine di rivelarne nuove possibilità, esporre il suo futuro perduto, per produrre infine novità. In generale, questi lavori evocano l’estetica inquietante del passato, trattando la memoria culturale attraverso il campionamento riorganizzato di vecchie fonti visive o sonore, con un senso di perdita e lutto.
La mia metodologia coreografica nella danza si basa sul principio di un continuo apprendimento delle tecniche fisiche e degli stili di danza, che affronto più come tecnologie che come codici. In questo modo continuo a imparare per continuare a disimparare: un modo per soffocare le mie competenze e il mio sistema di conoscenze, per distruggere le mie norme e sperimentare l’autonomia. Il disimparare è la chiave per una sorta di emancipazione.
Mi immergo in una ricerca e in una pratica che raccoglie ricordi non solo miei, una ri-combinazione di passato personale e collettivo. Esperienze che funzionano più come un’osservazione di contesti e stili, interpretazioni di espressioni individuali, passi vaporizzati e pratiche fisiche/danzanti, indipendentemente dal loro grado di complessità, possono essere utili a questa ricerca. Non sono interessata all’antichità o alla storicità della cultura della danza in quanto tale, questo progetto non riguarda il revival o la riabilitazione di danze perdute. Scavo nel materiale che mi ossessiona, mi soffermo sulla dimensione mitologica che mi spinge a incarnarla.
Il mio obiettivo è una profonda e laboriosa ricerca fisica e pratica corporea, ma non una coreografia complessa. L’obiettivo è far sì che si costruisca o addirittura si riveli un territorio di memorie e conoscenze non mature, che emergono da dati condivisi e personali, spazi reali o fittizi. L’idea è di incanalare la tristezza che le possibilità perdute hanno lasciato dietro di sé e vedere se è possibile creare uno spazio per ciò che personale e collettivo, intimo e pubblico, dove è possibile una disgiunzione del tempo, un dialogo perturbante tra passato e presente, “arcaico” e “contemporaneo”.
Con la mia pratica desidero passare da un passato perduto a un futuro perduto. Dal mio passato perduto al mio futuro perduto. E quanto più indietro posso andare, tanto più futuristica può diventare la mia proposta. Per amplificare tutto questo, ho scelto di lavorare con materiali costruttivi che possono essere oggetti, accessori e incarnare potenzialità, ma che alla base rimangono tali: pesanti e poveri. Il lavoro che ne deriva mi interessa in termini di consegna ma anche di rituale, il mio personale rituale per raggiungere un’organizzazione dello spazio e del tempo, usare la mia azione per poter parlare.
Sposto blocchi di cemento per fare di un muro il mio partner, lo schermo del mio lamento. Siamo due entità mute e bloccate nei nostri corpi temporali; non condividiamo nient’altro che un’identità/origine proiettata e il desiderio di farci sentire. In base alla confusione di chi sta infestando chi, di chi sta piangendo chi, di quale corpo (in carne e ossa o in cemento) è la voce del lamento, di quale vita è andata perduta, di cosa rappresentano il passato o il futuro in questa perdita, ho bisogno di avere lo spazio in cui riflettere non solo sulla mia tristezza, ma soprattutto sulla confusione che vivo oggi in quanto lavoratrice, danzatrice, ateniese, donna, cittadina, in quanto parte di tutto questo.


Traduzione di Edoardo Lazzari.

foto di copertina Mourn Baby Mourn di Hélène Robert.


Katerina Andreou è presente a Short Theatre 2022 con Mourn Baby Mourn il 7 e 8 settembre.


TURBOLENZE è la sezione di CUT/ANALOGUE delle tracce, traiettorie, tragitti in forma di note, contrassegni, chiose dei/delle artist_. Assemblaggi agitati dalla creazione, diventano luogo di transito nello scintillio irrequieto e mescolato del fare.

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