TURBOLENZE

W H A T W E A L L W A N T

Note per SFERA di mk
di Michele Di Stefano

La pratica è coreograficamente difficile ma non impossibile. Si tratta di considerare la danza come quella cosa che sta per produrre un’informazione ambientale che ancora non c’è, considerare ogni azione come un fare spazio, a diversi livelli di profondità, spazio atmosferico, spazio reale, proiezione, balistica eccetera. Si tratta di mettere i corpi — uno accanto all’altro — in condizione di prefigurare questa informazione in altri corpi e agire di conseguenza, mentre contemporaneamente si continua a produrre lo stesso segnale di potenzialità col proprio corpo. Potenzialità di uno spazio che viene, non darlo per scontato, deve essere un fatto che si realizza molto più che un gesto estetico. Da un lato vuol dire allenare le regole di un ovvio “sesto senso” spazio-temporale per costruire, dall’altro vuol dire anche prendere costantemente in considerazione un’altra possibilità di movimento, come se ci fosse sempre una “legge della seconda scelta” a determinare l’azione. Uno scopo meno chiaro, che non ha niente a che fare col dubbio. Il corpo dunque mentre agisce si offre al cambiamento di intenzione. È una condizione della carne tutta, scheletro compreso, la materia vivente si presta a questa rarefazione di intenti che contemporaneamente afferma e smentisce la propria intenzione ambientale.
Sarebbe questa la SFERA che ognuno produce, una condizione talmente intima da poter essere generata solo facendola coincidere con l’esterno più generoso. Un esterno non dato, che “sta per essere”. Mi sembra vicino al mondo che vogliamo generare ed esperire, foresta.

Allora sulla “seconda scelta”: per sentire il corpo in questo spazio ipotetico tra l’una e l’altra scelta, ho pensato di trasmettere un’ulteriore informazione in cuffia, in modalità discorso. Dico questo e questo e quello, poi soffio, poi dico un’altra cosa e un’altra. Elenchi, considerazioni cruciali, frammenti di discorsi alla notte degli Oscar, singole frasi incastonate nella loro necessaria solitudine e cascate di fatti, conversazioni origliate, schiocchi.
Ti chiedo di enunciare quello che senti, trovare la concentrazione per liberare la reazione e inventarne il ritmo, lo spazio, il tempo, mantenere una distanza tra ciò che ascolto e ciò che dico. E lo dico solo per creare quello spazio nuovo dove poter trascorrere il corpo mentre lo dico. Pura emissione. Chissà poi se lo dico in inglese o in coreano, altri spazi altre esitazioni….
Torno a essere fantasma, la mia visibilità è dovuta esclusivamente alla mia intensissima intenzione di dire. Mi manifesto come enunciazione; basterebbe il volto, probabilmente, una galleria di volti appiccicati l’uno all’altro, a compenetrare il desiderio di enunciazione nella maniera più giusta, ma quel che dà il movimento al pensiero in termini di esplorazione è impagabile e quindi non solo il fantasma ma anche il performer. Resta però questa attrazione per il volto puro come superficie, attaccato a un altro volto. Il bacio di Giuda.

dettaglio dell’affresco “Incontro di Anna e Gioacchino alla Porta d’Oro”, Giotto

Il suono proviene da un luogo chiuso, è giusto così.
Lì dentro non si sa qual è il piano. In cuffia c’è sempre qualcos’altro.

Mi piace fotografare la gente che dorme sul traghetto, i vassoi di metallo, le porte azzurre, i tappeti all’aperto, i pavimenti in pietra, il Galata morente ai Musei Capitolini, le cosce e i peli sotto le ascelle. Il profumo del patchouli, sandalo, menta, timo selvatico. Mi piacciono i gufi e tutti i rapaci notturni, i caimani a pelo d’acqua e i nomi delle malattie tropicali. I nomi di alcuni té, come Lapsang Souchong, le gelatine di frutta e i dolci alle mandorle siciliani. Mi piace dare titoli ai disegni, il gesto di chi guarda da un’altra parte mentre sta facendo qualcosa, viaggiare sul fiume, le colazioni continentali, le camere d’albergo senza quadri, i portieri di notte, l’arrivo di un autobus dalla Romania. Il suono di due pietre che battono, l’idea che qualcuno danzi con un piccolo sasso in bocca, le catenine d’oro.
Perché farsi martellare dal discorso in questo contesto non mi è chiaro, ma mi fido di questa sovrapproduzione ingiustificata, quasi un invito alla cautela che forse è interessante, una sorta di apoteosi della significanza spacciata per significato, o lanciare l’allarme per una disfatta imminente allo scopo di far trapelare un orizzonte più sobrio o semplicemente una strategia per rendere visibile un’atmosfera altrimenti inafferrabile?
Non lo so, al fondo ci deve essere una risoluzione molto semplice, che è quella di rendere visibile la capacità del corpo di offrirsi come generatore di atmosfera. Praticamente ho fatto il giro largo per tornare alla danza della pioggia.

Hello. My name is Sascheen Littlefeather, I’m Apache, and I’m president of the National Native American Affirmative Image Committee. I’m representing Marlon Brando this evening, and he has asked me to tell you in a very long speech which I cannot share with you presently because of time, but I will be glad to share with the press afterwards, that he very regretfully cannot accept this very generous award. And the reasons for this being are the treatment of American Indians today by the film industry… excuse me… and on television, in movie re-runs, and also with recent happenings at Wounded Knee. I beg at this time that I have not intruded upon this evening, and that we will, in the future, our hearts and our understandings will meet with love and generosity. Thank you on behalf of Marlon Brando.(1)

La prima volta che ho visto il kecak a Bali mi ha travolto di felicità, mi sono immaginato qualcosa di analogo senza mitologia e narrazione, come capitare in un mercato chiassoso e caotico messo su come pura imitazione confusa della vita, dove tutti ma proprio tutti producono suono e rumore al solo scopo di portarti via, di catapultarti in una zone siderale dell’esperienza dove quel che pulsa ha un luogo e nessun luogo contemporaneamente e risuona dappertutto e naturalmente a pulsare è ogni infinitesima cosa. E poi quella risonanza è fatta di sfere.
Mi piace il Pantanal, la frase: quando crediamo di deridere l’ideologia dominante stiamo semplicemente rafforzando la sua presa su di noi, i discorsi sul linguaggio, l’argomento “turismo”, la meteorologia, la filatelia, saper distinguere le pietre preziose, imparare i nomi degli alberi, il motto di Tayllerand: la maggior parte delle cose si fanno non facendole.
Più stai accanto meno necessaria è la lingua. Ecco un’altra teoria estemporanea da mettere in pratica. Valutare il parlottio indistinto nella prossimità. Valutare anche una specie di azione taumaturgica dove afferrare e scuotere qualcuno può essere fatto solo attraverso l’evocazione di brand esclusivi al momento giusto. Ti prendo per il polso e ti scuoto e aaaaaaaaaahhhhhh oooooooohhh Chanel!

L’atmosfera è “un’articolazione sensibilmente e affettivamente avvertibile, e quindi esistenzialmente significativa, di possibilità vitali realizzate o non realizzate”. (S)

Poi i contenitori, come una rotondità solo sfiorata, impossibile da portarsi armoniosamente addosso. Un trolley pesante, uno zaino militare, la tinozza dove vomitare la propria reazione all’ayahuasca, le buste dei negozi, la caramella da scartare: la caramella, un’altra rotondità che promette la dolcezza, l’arrotondamento, la sfera, bisogna sputare tutto, l’ambiente sono anche i propri rifiuti.
Una ragazza a Seoul aspetta il taxi alle due di notte al bordo della strada; è nuvoloso, intenso grigio monsone e umido, tutto sta per piovere, nell’unica vetrina illuminata di viola ci sono acquari di granceole e aragoste vive con le chele bloccate da fili di plastica. Aspettano l’inevitabile. L’acqua è satura di bollicine. Il taxi non arriva, la ragazza dai tacchi vertiginosi si accuccia su se stessa. Lo schermo gigante del suo cellulare la rende a malapena visibile a pochi passi dall’atrio buio di un grattacielo immenso dal quale sembrano diramare tutti i segnali elettrici del mondo circostante, semafori, fari di automobili, l’insegna di una banca lontana, il suo viso. C’è odore di alghe e asfalto.

I nomi di posti con la O.
Ostenda—Okawango—Oklahoma—Odessa—Omaha—Osaka—Oran.
Il buco del Pantheon.

Una combinazione di gruppo tutta scritta, tutta in dinamiche alternative, dettagli non ergonomici, scarti, micro—sinc, ripetizioni, catene, pause. Scomporre e ricomporre l’anatomia sociale. Con una illusione di totale improvvisazione. Isolare le danze singole. Poi ripetere. Mescolarsi nell’illusione di un disegno. What we all want.

 

(1) Discorso di Sascheen Littlefeather agli Academy Awards del 1972, in occasione della premiazione di Marlon Brando per Il Padrino. Cfr. il database ufficiale dei discorsi degli Oscar. 


mk porta a Short Theatre 2022 il suo nuovo lavoro, Sfera, in debutto il 15 e 16 settembre in due repliche.


TURBOLENZE è la sezione delle tracce, traiettorie, tragitti in forma di note, contrassegni, chiose dei/delle artist_. Assemblaggi agitati dalla creazione, diventano luogo di transito nello scintillio irrequieto e mescolato del fare.

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